10 giugno 2016 11:49

Chi era Sekiné Traoré, il richiedente asilo maliano, che è stato ucciso da un carabiniere durante una rissa nella tendopoli di San Ferdinando la mattina dell’8 giugno? Chiamato dagli amici Sek, era un ragazzo di 27 anni, lavorava nelle campagne calabresi come bracciante stagionale, un impiego pagato 25 euro al giorno, circa la metà di quello che prevede il contratto nazionale di categoria.

Da qualche mese viveva nella tendopoli costruita dal ministero dell’interno e dalla protezione civile a San Ferdinando, a pochi chilometri da Rosarno, una cittadina calabrese diventata il simbolo dello sfruttamento del lavoro nell’agricoltura, ma anche delle rivolte dei braccianti di origine africana contro il caporalato e il razzismo.

Nella tendopoli dovrebbero vivere quattrocento persone, e invece nel 2016, nei periodi di massimo afflusso, nelle tende della protezione civile e nelle baracche costruite dai braccianti hanno vissuto anche 1.200 persone. La stagione della raccolta è finita a marzo, ma al momento ancora cinquecento persone vivono nel ghetto, nell’attesa che cominci la stagione dei pomodori in Puglia e in Basilicata.

Le condizioni di vita nella tendopoli sono terribili, tanto che a febbraio il prefetto di Reggio Calabria, Claudio Sammartino, aveva sottoscritto un protocollo con le associazioni umanitarie impegnate sul territorio per fare dei lavori di rinnovo, nell’ottica di un graduale smantellamento della tendopoli. Sekiné Traoré era in attesa che la sua richiesta d’asilo fosse valutata. Secondo Medici per i diritti umani (Medu), il 50 per cento dei residenti nella tendopoli è composto da richiedenti asilo o rifugiati. “Era una testa dura, ma non aveva disturbi mentali come dicono, e non beveva”, racconta Issa Jobateh, uno dei ragazzi che vive nella tendopoli da più tempo, un rifugiato gambiano che gestisce un’officina per le biciclette. “Aveva un fratello in Sicilia e uno in Francia, non parlava bene italiano, preferiva parlare in francese o nella nostra lingua, il bambara”, racconta Issa.

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Ricostruzioni diverse. Nella tendopoli, in una delle baracche, c’è una specie di negozio per i generi alimentari, gestito da alcuni migranti. L’8 giugno Sekiné Traoré è entrato nel negozio e ha litigato con due ragazzi del Burkina Faso e del Gambia, perché voleva che gli venissero offerte delle sigarette: ha minacciato con un coltello uno dei due e l’ha ferito. Il gestore del negozio e gli altri presenti hanno chiamato i carabinieri, impauriti da quel comportamento aggressivo. È arrivata una pattuglia, che ha chiamato a sua volta i rinforzi, quindi sono sopraggiunte un’altra pattuglia dei carabinieri e una della polizia.

A questo punto le ricostruzioni dei fatti, diffuse dai carabinieri e dalla procura, in parte divergono da quelle riportate dalle persone presenti nella tendopoli. Le forze dell’ordine e la procura parlano di una colluttazione tra il ragazzo fuori di sé e gli agenti, che avrebbe portato uno dei carabinieri, aggredito e ferito vicino all’occhio destro, a sparare a Traoré, che è stato colpito all’addome ed è morto all’istante. Le forze dell’ordine parlano di cinque agenti presenti sul posto al momento dello sparo, mentre i migranti hanno raccontato che gli agenti erano sette. Il comunicato dei carabinieri riporta:

Dopo aver lanciato pietre ed altri oggetti contro gli operanti, [Traoré] si avventava nuovamente contro gli stessi colpendo con un fendente al volto, all’altezza dell’occhio destro, uno dei militari intervenuti. Anche nel frangente il maliano veniva nuovamente allontanato, ma nonostante questo ennesimo tentativo di evitare lo scontro fisico, questi si scagliava ancora una volta contro il militare precedentemente ferito al viso che reagiva all’aggressione con un colpo della pistola d’ordinanza, che nella concitazione degli eventi attingeva il Traoré all’addome.

Il carabiniere che ha sparato è stato indagato, ma il procuratore di Palmi, Ottavio Sferlazza, che si occupa del caso, ha dichiarato: “Il contesto e la dinamica di quanto accaduto autorizzano a pensare, pur con tutte le cautele del caso e senza voler anticipare alcuna conclusione, che possa delinearsi una legittima difesa”.

Alcuni testimoni nella tendopoli avanzano una ricostruzione dei fatti più complessa: alcuni dicono che il colpo è stato sparato mentre Traoré era già a terra, altri che il ragazzo impugnava un coltellino e non un coltello “a seghetta” da cucina come è stato riportato dalle forze dell’ordine, altri ancora che il carabiniere che ha sparato non è quello che è stato aggredito. La baracca in cui è avvenuto l’omicidio non è stata messa sotto sequestro, e sul tappeto rosso in cui i testimoni hanno visto il corpo riverso di Sekiné Traoré non ci sono segni visibili della colluttazione.

La baracca della tendopoli di San Ferdinando in cui è avvenuto l’omicidio. (Giulia Anita Bari, Medici per i diritti umani)

Per chiedere un’indagine approfondita su quello che è avvenuto, giovedì 9 giugno circa duecento migranti hanno partecipato a un corteo guidato dal cugino di Sekiné Traoré, Amadou. La manifestazione è partita dalla tendopoli ed è arrivata davanti al municipio di San Ferdinando; i manifestanti chiedevano di incontrare il commissario prefettizio che amministra la cittadina calabrese, il cui consiglio comunale è stato sciolto per mafia. I manifestanti, che alla fine sono stati ricevuti dal vicequestore di Reggio Calabria, Roberto Pellicone, hanno chiesto indagini complete e la possibilità per i migranti della tendopoli di costituirsi parte civile nel processo.

“La manifestazione organizzata da questi ragazzi è pacifica. Quello che si chiede è sapere perché è stata uccisa una persona”, ha detto Giulia Anita Bari, portavoce dell’organizzazione Medici per i diritti umani (Medu), che da anni lavora nella tendopoli. “C’è una ricostruzione ufficiale dei carabinieri e adesso aspettiamo che le indagini facciano il loro corso. Bisognerà capire, da una parte, la dinamica del fatto e sapere, dall’altra, cosa succederà dopo”, afferma Bari. “La situazione d’isolamento e degrado dei migranti nella tendopoli deve essere superata. Questa è l’unica soluzione per evitare episodi di violenza”.

“I carabinieri dovrebbero garantire sicurezza, ma a questo punto a chi ci dovremmo rivolgere la prossima volta che ne avremo bisogno?”, chiede Issa Jobateh, mentre mi manda la foto di Sek che gli è rimasta nel telefono.

Intanto su Facebook un collega del carabiniere indagato ha diffuso una foto che mostra l’agente ferito commentando:

Ecco il collega che a sparato e ucciso il suo aggressore per difendersi pensate se il coltello lo prendeva dentro l’occhio. Che dire meglio un brutto processo che un bel funerale chi è d’accordo dica la sua.

E a quanto pare in molti sono d’accordo. Ecco alcune risposte al post: “Onore al collega pronta guarigione”; “Ha fatto il suo dovere….si stava difendendo x portare a casa la pelle”; “Ha fatto benissimo, ci siamo stancati di porgere l’altra guancia e di farci picchiare o uccidere da chi entra in casa nostra”; “Fatto benissimo … se era toccato a lui nn era successo niente”.

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