15 marzo 2024 12:46

Ci sono voluti trent’anni perché Cristina Rivera Garza, una delle più importanti scrittrici messicane contemporanee, scrivesse un libro sul femminicidio della sorella Liliana, una studente di architettura uccisa a Città del Messico nel luglio 1990 dal suo ex ragazzo.

“Non avrei potuto scrivere questo libro prima, perché probabilmente addirittura avrei fatto un danno a mia sorella”, spiega Rivera Garza, che è in Italia in questi giorni per presentare L’invincibile estate di Liliana (Sur 2023), ispirato a una vicenda che ha molti punti di contatto con la storia del femminicidio di Giulia Cecchettin, avvenuto in Italia nel novembre 2023.

Anche Liliana Rivera Garza, come Cecchettin, aveva provato diverse volte a lasciare il suo fidanzato, ma quando aveva deciso di cominciare una nuova vita all’estero, trasferendosi a Londra per iscriversi a un master, il ragazzo l’aveva uccisa, impedendole di avere una vita senza di lui. Per queste somiglianze, dopo la morte di Cecchettin il libro di Garza è stato protagonista negli ultimi mesi di letture pubbliche a Roma e a Milano, e usato da molte attiviste come un manifesto contro la violenza di genere e il femminicidio.

“Credo che gli scrittori non usino una lingua privata, che la lingua nella quale ci muoviamo sia sempre quella della collettività, della comunità a cui apparteniamo. Non avrei mai potuto scrivere questo libro senza la lingua che le donne hanno elaborato negli ultimi anni su questo tema, senza il linguaggio dei movimenti femministi che hanno cambiato i nostri paesi negli ultimi trent’anni”, spiega Rivera Garza, una donna minuta che indossa occhiali larghi e verdi, e sfoggia un sorriso discreto mentre incontra i suoi lettori e le sue lettrici alla fiera indipendente Bookpride di Milano.

“Penso che tra i compiti degli scrittori ci sia quello di costruire uno spazio di ascolto, in cui si possa praticare la cura gli uni degli altri e l’attenzione. E grazie a questa energia poter costruire un mondo diverso”, continua la scrittrice messicana.

Negli anni novanta il femminicidio non era neppure un reato in Messico. È stato ufficialmente riconosciuto il 14 giugno 2012, quando è stato incluso nel codice penale federale con l’articolo 325, che dice: “Commette il delitto di femminicidio chi priva della vita una donna per questioni di genere”. In molti paesi del mondo, tra cui l’Italia, non esiste ancora questa fattispecie di reato nel codice penale.

Secondo Rivera Garza, quando la sorella è stata uccisa trent’anni fa non esisteva una consapevolezza così forte come quella che c’è in questo momento sul fatto che questo tipo di omicidi ha a che fare con elementi strutturali della nostra cultura e con il ruolo assegnato storicamente alla donne, e questo emerge in maniera molto chiara nel linguaggio usato per descriverli.

Cristina e Liliana da bambine. (Per gentile concessione di Sur)

“Negli anni novanta avrei avuto a disposizione solo le parole del delitto passionale, che come sappiamo dà spesso la colpa alla vittima per la violenza subita. Avrei fatto del male a mia sorella e a me stessa. Ci sono voluti anni di cambiamenti. Avevo bisogno di un altro vocabolario. Abbiamo cambiato il nome alle cose, abbiamo smesso di chiamare la violenza con il lessico dell’amore romantico. Come sorella di Liliana e come scrittrice avevo bisogno di questo cambiamento, di rivoluzionare lo sguardo, di altre parole”, sottolinea la scrittrice.

È stato determinante il momento in cui Rivera Garza nel novembre 2019 ha assistito alla performance Un violador en tu camino (uno stupratore sulla tua strada) del collettivo femminista cileno Las Tesis. “In quel momento ho provato un brivido, mi sono emozionata, ho capito che finalmente c’erano le parole per raccontare il femminicidio di Liliana, mi è stato chiaro che quel vocabolario era lì e che c’erano anche delle orecchie pronte ad ascoltare un altro tipo di storia”, racconta Rivera Garza, che nel libro scrive che prima del 2012 ogni omicidio che avveniva all’interno di una coppia in Messico era raccontato come delitto passionale. E che questo è stato il motivo per il quale la scrittrice e la sua famiglia hanno per molto tempo evitato di parlare della vicenda, provando a tutelare la memoria di Liliana, anche attraverso il silenzio.

“Gran parte dei femminicidi commessi prima del 2012 erano chiamati delitti passionali, erano chiamati ‘ha preso una cattiva strada’, erano chiamati ‘perché si veste così?’, erano chiamati ‘una donna deve sempre stare al suo posto’, erano chiamati ‘qualcosa deve aver combinato’. Erano chiamati addirittura ‘se lo meritava’. La mancanza di linguaggio è impressionante, ci soffoca, ci fa a pezzi, ci condanna”, spiega la scrittrice, leggendo un passaggio del libro a Milano.

Scrivere per sapere quello che non si conosce

Per fare questa inchiesta sulla morte della sorella Liliana e riportare il caso all’attenzione dell’opinione pubblica Cristina Rivera Garza ha aperto degli scatoloni che contenevano le cose appartenute a Liliana, i suoi diari, le sue lettere, i suoi appunti, i suoi taccuini. E poi ha intervistato tutti i suoi amici, i suoi amori dell’epoca per capire che tipo di persona fosse e qual era la vita che aveva condotto fino al momento del suo omicidio.

“Senza le parole di Liliana e la sua lingua non sarebbe stato possibile scrivere questo libro. Io all’epoca studiavo sociologia, volevo cambiare il mondo, non pensavo di fare la scrittrice, invece Liliana era in un certo senso una scrittrice, ha lasciato piccoli fogli, lettere, biglietti che conservava e di cui si prendeva cura amorosamente. Scriveva e riscriveva, proprio come fanno gli scrittori, aveva il gusto di dare una forma alla propria scrittura. La lingua stessa di Liliana mi ha permesso di ricostruire il suo mondo, che era il mondo di una ragazza di vent’anni degli anni novanta. La sua musica, le sue letture, i suoi amici. Ho scoperto che Liliana, mia sorella minore, era molte donne, molte Liliane che io non conoscevo”, racconta Garza.

“Non si scrive di qualcosa che si conosce, ma si scrive per scoprire qualcosa che non conosciamo, la scrittura prevede sempre una ricerca, questo è un atto di cura”, continua la romanziera, che confessa di aver scritto altre due versioni del libro, usando però il linguaggio della finzione, che non vedranno mai la luce, perché meno credibili. Ispirandosi al lavoro e alla lezione di altre scrittrici, come la messicana Elena Poniatowska o la francese Annie Ernaux, o ancora la bielorussa Svjatlana Aleksievič, Cristina Rivera Garza ha usato diversi generi letterari: il memoir, l’autofiction, l’inchiesta, l’epistolario, il racconto. “I miei ultimi tre libri mescolano molto fiction e non fiction, m’interessa avvicinarmi alle parole degli altri, attraverso gli archivi. Credo nella relazione tra il corpo e la parola. Mi preoccupa meno la verità, m’interessa avvicinarmi il più possibile a questa cosa complessa e potente che è essere vivi. Penso che questo sia il potere del linguaggio: creare esperienza, realtà”.

Spesso, secondo la scrittrice, quando avviene un femminicidio ci si concentra soprattutto sulla morte della persona che è stata uccisa, sui particolari della sua morte, ma per Garza anche questo è un retaggio patriarcale: “Il patriarcato e la sua narrativa ci preferisce morte. I film e il cattivo giornalismo si concentrano sulla morte, se c’è stata una violenza. Certo, dobbiamo parlare delle circostanze della morte, ma dobbiamo enfatizzare la vita di queste donne. Per me era molto chiaro che volevo raccontare la vita ricca, piena di sfumature, di sentimenti di mia sorella, non solo la sua morte, e che anche questo avrebbe contribuito a cambiare il linguaggio. Ci sono vite complesse, con molteplici relazioni e contraddizioni. Ci sono interessi, sogni e lotte nelle vite di queste donne uccise dai loro compagni o ex. Volevo che questa fosse la parte centrale del libro, non le circostanze della morte di mia sorella”, racconta. “E quando ho deciso di aprire le scatole di Liliana, chiuse da trent’anni, ho scoperto che aveva fatto di sé un archivio: molto ampio, attento, meticoloso, bello in tanti suoi aspetti”.

“M’interessava di meno della storia dell’omicida, volevo che al centro ci fosse Liliana. Volevo creare uno spazio perché lei potesse esprimersi, anche per dire che casi come quello di mia sorella non sono straordinari, ma fanno parte di un sistema che è strutturale. Basta dare voce a queste persone per capirlo. Credo che succede qualcosa di potente quando molte persone pronunciano il nome di chi hanno perso, solo in questo modo possiamo sentire la loro mancanza e in qualche modo riportarle in vita”, sottolinea.

Per Rivera Garza scrivere questo libro è stato anche un lavoro di restituzione e di memoria. “Riportare alla luce queste vite, sentire la mancanza di queste donne uccise è un modo di riportarle tra noi, sentire la loro mancanza è un modo per fare giustizia”, dice la scrittrice, che tuttavia sta ancora aspettando che si svolga un processo sull’omicidio della sorella Liliana. L’uscita del libro ha contribuito ad accelerare le pratiche per riaprire il fascicolo d’indagine sull’omicidio.

Il presunto assassino, Ángel González Ramos, pur essendo stato identificato dopo pochi giorni, non fu mai arrestato e fuggì. La scrittrice ha aperto anche una casella di posta elettronica per raccogliere notizie sull’assassino e dopo sei mesi è arrivato un breve messaggio, secondo cui Ramos sarebbe scappato negli Stati Uniti, dove avrebbe vissuto con un falso nome fino alla morte, avvenuta per un incidente in barca nel 2020.

Cristina Rivera Garza dice che le indagini per verificare la fondatezza di queste informazioni sono ancora in corso. Ma in ogni caso vorrebbe che ci fosse un vero e proprio processo: “Ho pensato che se non avessi scritto questo libro l’esperienza di Liliana sulla terra sarebbe andata perduta, che nessuno l’avrebbe ricordata, che eravamo stati troppo discreti nel nostro dolore, così tanto da fare un favore all’assassino, senza saperlo, ovviamente senza volerlo”.

E poi aggiunge: “Io e Liliana eravamo sorelle, ci amavamo e litigavamo come tutte le sorelle, avevamo cinque anni di differenza. Non ci piacevano gli stessi vestiti, qualche volta ci piacevano gli stessi film o gli stessi libri. Il più grande disaccordo che avevamo era sull’amore. Negli anni ottanta ero completamente contraria all’amore. Invece Liliana era sempre dalla parte dell’amore e io credevo che fosse un po’ tradizionalista. Solo ora ho capito che l’amore in cui credeva lei non era l’amore romantico, era una cosa diversa, più alta. Oggi penso che dovremmo avvicinarci tutti di più a questo tipo di amore, un amore che è apertura, che è entusiasmo”, conclude.

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