31 agosto 2016 16:57

È il 13 dicembre 2015. Sul lungomare di Copacabana, a Rio de Janeiro, migliaia di persone camminano grondando di sudore sotto il sole a picco. Tutti accompagnano con furia rivendicativa le grida che escono dagli altoparlanti del camion in testa al corteo, scortato da venditori ambulanti di magliette e adesivi con la frase “Fóra Dilma”, fuori Dilma.

È la quarta ondata di manifestazioni contro la presidente del Brasile, Dilma Rousseff. Nel 2015, il primo anno del suo secondo mandato, la crisi economica ha travolto il paese. L’azienda petrolifera statale Petrobras ha dovuto fare i conti con l’avvio, nel 2014, dell’indagine lava jato (autolavaggio) su una gigantesca rete di corruzione e di tangenti tra la compagnia e la classe politica brasiliana, tra cui molti dirigenti del Partito dei lavoratori, al governo. La popolarità di Rousseff ne ha risentito. Nel frattempo a ottobre la corte dei conti ha bocciato il bilancio dell’esecutivo per irregolarità fiscali. Questo è stato il motivo ufficiale per l’apertura di una procedura di messa in stato di accusa della presidente, che potrebbe portare alla fine anticipata del suo mandato. Il 2 dicembre 2015 il presidente della camera, Eduardo Cunha, ha annunciato che avrebbe accettato la richiesta di messa in stato di accusa. Rousseff si è difesa pubblicamente: “Il mio passato e il mio presente testimoniano l’indiscutibile rispetto che ho delle leggi e della cosa pubblica”, ha detto.

La storia di Dilma Rousseff è quella di una sopravvissuta, che ha ricoperto la carica più importante del paese dopo aver percorso tutte le tappe possibili per un personaggio politico della sua generazione: militante universitaria, guerrigliera clandestina processata e incarcerata durante la dittatura, ministra statale, ministra federale e infine presidente. La sua storia le è valsa la fama di lady di ferro e maga della sopravvivenza. Secondo i sondaggi, oggi la maggioranza dei brasiliani è contraria al governo di Rousseff. Lei si appella alla legittimità delle urne e definisce “colpo di stato” la procedura di destituzione avviata contro di lei. Se il governo non riuscirà a ottenere 172 voti contro la messa in stato d’accusa (un terzo della camera più un voto), la proposta passerà al senato e Rousseff sarà allontanata dalla sua carica. Ma la presidente confida nella sua storia di lotta per restare a galla.

Le proteste contro la sua gestione potrebbero far pensare che Rousseff sia un albero pericolante. I detrattori sostengono che l’inizio del suo mandato, nel 2010, sia stato solo un prolungamento di quello del mentore Luiz Inácio Lula da Silva. Che la sua immagine di dirigente tenace sia ormai sfumata e che la sua onestà vacilli non per quello che ha fatto, ma per quello che ha nascosto. Invece, secondo i sostenitori, la presidente sopravviverà agli attacchi.

Ideologia e tempo libero
Dilma Vana Rousseff è nata il 14 dicembre 1947 nella città di Belo Horizonte, nello stato di Minas Gerais. Il suo secondo nome è un omaggio alla sorella minore del padre, Pedro Rousseff. Nato nel 1900 in Bulgaria e registrato all’anagrafe come Pétar Roussev, nel 1929 era fuggito in Francia per motivi ignoti e aveva cambiato il suo cognome eliminando la v e aggiungendo due f: Rousseff. Dopo la seconda guerra mondiale si era trasferito in Brasile e lì avevano cominciato a chiamarlo Pedro. Poi quell’uomo pallido e imponente, che aveva lasciato una moglie e un figlio in Bulgaria, si era innamorato della figlia di un allevatore di bestiame. Lei si chiamava Dilma Jane e aveva vent’anni quando i due si erano sposati. I figli erano arrivati subito: Igor, Dilma, solo undici mesi dopo il primogenito, e Zana, quattro anni dopo.

Ma la vita spensierata della famiglia finì all’improvviso nel 1962. Un sabato, rientrando a casa, Pedro si sentì male. Era un fumatore incallito e morì la sera stessa a causa di un infarto. Lasciò una fortuna e un vuoto nella famiglia, soprattutto nella figlia maggiore Dilma, che aveva quattordici anni e cominciava a cambiare, da bambina agiata a ragazza inquieta. La scuola che frequentava, Nossa senhora de Sion, fu venduta, e lei si trasferì nell’istituto pubblico più famoso di Belo Horizonte, il Colégio estadual central, dove studiavano i figli della borghesia progressista di Belo Horizonte. In quel momento la scuola era anche l’incubatrice di un movimento studentesco che, poco dopo, avrebbe imbracciato le armi. Rousseff superò l’esame di ammissione e cominciò gli studi in un periodo fondamentale per il paese: il marzo del 1964. Due settimane dopo un colpo di stato militare instaurò in Brasile una
dittatura che durò per 21 anni, fino al 1985.

Belo Horizonte era una città cosmopolita. “La casa dei Rousseff era uno dei pochi posti in cui si potevano trovare i libri di Jorge Amado. Per questo c’incontravamo sempre lì”, ricorda Helvécio Ratton, cineasta, ex guerrigliero esule e amico della presidente, parlando dello scrittore comunista perseguitato negli anni trenta nel suo stesso paese. “L’impressione era che a Belo Horizonte le disuguaglianze sociali non fossero profonde come in altre grandi città brasiliane”, prosegue. “Era una città in movimento, connessa al resto del mondo, e la strada e i bar erano luoghi importanti. Tutto succedeva lì”.

In quella città si formò El clube da esquina, un collettivo musicale che univa la musica popolare brasiliana con i Beatles, e il jazz con l’eredità latinoamericana. Era guidato da Milton Nascimento e da tre fratelli, i Borges. Uno di loro, Márcio, era compagno di scuola e amico di Dilma Rousseff. Trascorrevano insieme molti pomeriggi. “L’ho conosciuta a casa di un amico che faceva parte del movimento studentesco. Indossava l’uniforme della scuola, una gonna grigia e la camicia bianca con la cravatta”, racconta Márcio.

In quel periodo il tempo libero e l’ideologia andavano di pari passo, e la lotta armata cominciava a emergere come l’unica forma possibile di resistenza alla dittatura militare instaurata con il colpo di stato del 31 marzo 1964. Come avrebbe ricordato Rousseff decenni dopo, quando era ormai presidente, le influenze più importanti di quella generazione arrivavano da ambiti diversi: l’esistenzialismo, la nouvelle vague e la rivoluzione cubana. In quel contesto nacquero bar come il Butcheco, un locale nascosto e senza insegna che serviva a finanziare la Polop, l’organizzazione rivoluzionaria marxista politico e operaia dove Rousseff cominciò la sua militanza, nel 1965.

Colpo di fulmine
Cláudio Galeno Linhares era tornato a Belo Horizonte, la sua città natale, dopo essere stato detenuto per un periodo in un carcere di Rio de Janeiro alla fine del 1964, per attività sovversive. Linhares viveva nella pensione Odete, frequentata dai gruppi di sinistra della città e da alcune ragazze del Colégio estadual central che militavano nel movimento studentesco. Tra di loro c’era anche Dilma Rousseff. Cominciarono a frequentarsi quando Linhares era già impegnato nella lotta armata. Si sposarono nel 1967. La madre di Rousseff regalò ai due un appartamento dove vissero prima normalmente e poi in clandestinità.

Dilma Rousseff s’iscrisse alla facoltà di economia, la più rinomata dell’università federale di Minas Gerais.

“Quello che facevamo in quegli anni era il risultato di un ambiente scosso dal fermento politico e culturale”, racconta Ratton. “Proprio qualche giorno fa ripensavo al passato e mi domandavo perché sono entrato in un’organizzazione rivoluzionaria. Credevo di poter trasformare il Brasile, come insegnava il libretto di Jules Régis Debray”.

Quel “libretto” s’intitola Rivoluzione nella rivoluzione? e l’autore era un giovane giornalista francese che viveva in America Latina e propugnava la lotta armata di piccoli gruppi guerriglieri che avrebbero “innescato il motore della rivoluzione”. I giovani militanti di Belo Horizonte, quasi tutti borghesi, erano d’accordo con Debray. Per fare la resistenza armata servivano i soldi, così loro cominciarono a rapinare le banche. Secondo la versione più diffusa, nella Polop Rousseff si occupava della stampa clandestina del giornale O Piquete. Ha sempre negato di aver partecipato agli assalti alle banche.

Quando la Polop si sciolse, tutti entrarono in un nuovo gruppo, il Comando di liberazione nazionale (Colina). Era il 1968 e l’obiettivo era prendere le armi per arrivare al potere. Ma la dittatura aveva altri piani: il 13 dicembre il regime emanò l’Atto istituzionale numero 5, noto come AI-5, che autorizzava il presidente della repubblica, un militare, a sciogliere il parlamento. Le camere furono chiuse quello stesso giorno, inaugurando l’epoca più buia della storia recente del Brasile.

Nel gennaio del 1969 un attacco realizzato dai guerriglieri del Colina si concluse con l’arresto di un amico di Dilma Rousseff e di Cláudio Galeno. Loro due scapparono a Rio de Janeiro sotto la protezione dell’organizzazione guerrigliera e si rifugiarono in un appartamento. Poco dopo Galeno fu di nuovo trasferito a Porto Alegre, mentre Rousseff restò a Rio per occuparsi della logistica: armi, soldi e documenti. Nel corso di una riunione ebbe un colpo di fulmine: lui si chiamava Carlos Franklin Paixão de Araújo, aveva 31 anni, era figlio di comunisti ed era stato nelle carceri della dittatura. Araújo andò a vivere nello stesso appartamento di Rousseff.

Lo racconta per telefono da Porto Alegre: “La chiamavamo tutti Estela, non conoscevo il suo vero nome. Io ero Max. C’incontrammo per la prima volta durante una riunione per preparare l’unificazione del Colina con il Vpr, un altro gruppo. Fu un colpo di fulmine anche per me. Il giorno dopo le dissi che la trovavo attraente, lei rispose che era sposata, ma la passione ebbe la meglio e poco dopo andammo a vivere insieme”.

Dilma Rousseff e il suo nuovo compagno entrarono nel gruppo Vanguarda armada revolucionária Palmares, e lì Rousseff ricoprì un ruolo di primo piano. Il Var-Palmares decise di trasferirla a São Paulo, alla fine del 1969, mentre Max restava a Rio de Janeiro. “Passarono poco più di due mesi da quando se ne andò da Rio a quando fu arrestata”, ricorda Araújo. “Solo allora venni a sapere il suo vero nome: Dilma Rousseff”.

Rio de Janeiro, 2015. (Vincent Catala, Karma press photo/Vu)

Tutti i demoni del passato di José Olavo Leite Ribeiro rispuntano fuori quando questo ex militante parla delle torture. Le chiama o pau, letteralmente “il palo”.
“Per molti anni mi sono sentito in colpa”, dice. “Usavano questa tecnica: ogni giorno ti facevano scrivere la tua storia a mano. Tu scrivevi, e se c’era una divergenza qualsiasi con la versione precedente ti torturavano. Se dimenticavi o cambiavi qualcosa, ti torturavano, con o pau”.
“E perché si sentiva in colpa?”.
“Perché non avrei dovuto parlare, ma non ero pronto a morire per la causa. Cominciavano a picchiarti nel momento in cui finivi in carcere e non la smettevano fino a quando non confessavi qualcosa”.

Olavo sopporta un altro peso: la sua dichiarazione causò l’arresto di una compagna che poi sarebbe diventata la presidente del Brasile. Conobbe Dilma Rousseff (con i nomi di Luiza, Vanda, Estela e Patrícia) nel 1969. Secondo Olavo, era la leader del Var-Palmares a São Paulo.

“Lavorai per lei quattro mesi. Era una militante molto attiva e intelligente. Dal punto di vista intellettuale non era brillante, ma studiava e leggeva moltissimo, e si faceva notare”, afferma.

All’inizio del 1970 Olavo fu arrestato a São Paulo. Dopo due settimane in carcere era molto indebolito: aveva subìto continue torture ed era stato chiuso in una cella senza luce. Il 16 gennaio lo lasciarono uscire per dargli la possibilità di mostrare “il punto”, cioè il posto in cui si dava appuntamento con gli altri guerriglieri.
“Dilma Rousseff fu arrestata perché io mi presentai con la polizia nel luogo in cui dovevo incontrarla”, dice Olavo.

Matrimonio in carcere
La foto più famosa della presidente è quella che le fu scattata nel gennaio del 1970 all’interno del dipartimento di ordine politico e sociale, subito dopo il suo arresto. Nell’immagine si vede Rousseff con i capelli corti e un paio di occhiali con una montatura di plastica nera e lenti spesse. In mano ha un cartello con il numero 3023. Fu l’inizio della permanenza di Rousseff nelle carceri brasiliane: due anni e dieci mesi che cominciarono con la tortura.

Rousseff ha raccontato apertamente quell’esperienza solo nel 2003, al giornalista Luiz Maklouf Carvalho: “Per prima cosa c’era la palmatória, una specie di racchetta di legno con il manico lungo che serviva per colpire e stordirti. Poi mi chiedevano di togliermi i vestiti e mi mettevano nel pau de arara, una barra di ferro a cui venivo legata per i polsi e per le ginocchia. Poi la barra era sistemata tra due tavoli per farmi pendere a un palmo da terra. C’era anche la cadeira do dragão, la sedia elettrica. Mi colpivano con le scariche elettriche ovunque: piedi, mani, interno cosce e orecchie. Sulla testa era terribile. Anche sui capezzoli. Era impossibile trattenere l’urina e le feci. I primi giorni ero esausta, svenivo perché non resistevo a tutte quelle scariche. Avevo emorragie. Quando mi lasciavano in pace tremavo di freddo, perché ero nuda. E poi ricominciavano”.

“Mi arrestarono ad agosto”, ricorda Araújo. “Mi tennero in carcere per 75 giorni e poi mi portarono davanti a un giudice, dove rividi Dilma per la prima volta. Entrambi fummo trasferiti in un altro carcere e a quel punto conobbi sua madre. Si chiamava Dilma anche lei, e durante le visite diventò amica di mia madre. C’erano un padiglione maschile e uno femminile, le persone sposate potevano vedersi in privato. Noi però non eravamo sposati. Per questo le nostre madri cercarono di fare pressione sul direttore del carcere: volevano farci incontrare. Un giorno, forse per stanchezza, il direttore le prese come testimoni e ci sposò. Il nostro certificato di matrimonio è firmato dal direttore di una prigione della dittatura militare”.

Rousseff fu condannata a sei anni di prigione. Il tribunale superiore militare ridusse la sua pena a tre anni, che diventarono due anni e dieci mesi. Alla fine del 1972 uscì dal carcere. Aveva 25 anni.

La sua immagine pubblica si rafforzò e, in campagna elettorale, fu presentata come la guerriera

Quando tornò in libertà anche Araújo, insieme cominciarono una nuova vita a Porto Alegre. Nel 1976 ebbero la loro unica figlia, Paula, mentre la loro carriera decollava: Carlos forniva assistenza legale alle persone indigenti, Rousseff era tirocinante alla Fondazione di economia e statistica (Fee) dello stato di Rio Grande do Sul, ma perse il lavoro quando il suo nome comparve su una lista di proscrizione dei quadri guerriglieri reinseriti nei posti pubblici. Decise quindi di riprendere gli studi di economia. Intanto continuava la militanza da casa: il suo appartamento si trasformò nel ritrovo dei movimenti a favore delle elezioni dirette, dei gruppi sindacali e del Movimento democratico brasiliano (Mdb), un partito di opposizione alla dittatura.

Si avvicinava la fine degli anni settanta e la dittatura continuava in una versione sempre più edulcorata. Le elezioni erano rimandate, ma i leader dell’opposizione in esilio potevano rientrare in patria. Tra loro c’era anche lo storico dirigente di sinistra Leonel Brizola. Insieme a lui, Dilma Rousseff e Carlos Araújo parteciparono alla rifondazione del Partito laburista brasiliano, il Ptb. Nel 1980 fondarono il Partito democratico laburista. Dilma faceva parte del consiglio comunale e cominciava a tessere i suoi legami politici. Intanto il regime si sgretolava: nel 1985 cominciò la transizione a un governo civile. Rousseff ottenne la sua prima carica ufficiale come assessora al bilancio e, dal 1988, non abbandonò più l’amministrazione pubblica: fu direttrice generale del consiglio comunale di Porto Alegre, presidente della Fee dal 1990 al 1993 e ministra dell’energia, delle miniere e delle comunicazioni dello stato di Minas Gerais. Quest’incarico fu riconfermato nel 1999, quando si fece notare da Luiz Inácio Lula da Silva.

Sul piano personale le cose non andavano bene. Una crisi irreversibile la spinse a mettere alla porta il marito. Poco dopo, Rousseff ebbe una relazione con un ingegnere, Luiz Oscar Becker. È l’unico uomo, oltre ai suoi due mariti, a cui si sa che Rousseff fu legata.

La guerriera
Nel frattempo il Brasile stava cambiando. Dopo la fine della dittatura si erano susseguiti governi di centrodestra e Lula si stava facendo conoscere alla guida del Partito dei lavoratori (Pt). Dopo aver perso tre elezioni, il leader del Pt vinse quelle del 2002. S’insediò come presidente nel gennaio del 2003 e nominò ministra federale per le miniere e l’energia una completa sconosciuta per i brasiliani: Dilma Rousseff.

Nel 2008, quando lei era capo di gabinetto, un politico dell’opposizione la costrinse a ricordare gli anni della dittatura. Il 7 maggio 2008 si riunì la commissione che indagava su presunte irregolarità durante il mandato dell’ex presidente Fernando Henrique Cardoso (1995-2003). Quel giorno Rousseff era al centro dell’attenzione. Davanti a lei, il senatore conservatore José Agripino Maia insinuò che Rousseff non stesse dicendo la verità. Il senatore metteva in dubbio la sua parola a causa di un’intervista in cui lei raccontava di aver mentito durante gli interrogatori della dittatura per non consegnare alla polizia i suoi compagni di guerriglia. Rousseff ascoltò con attenzione il discorso del senatore. Quando prese la parola, disse a voce alta: “Sono stata tre anni in carcere e sono stata barbaramente torturata, senatore. All’epoca chi veniva interrogato e diceva la verità rischiava di compromettere la vita dei suoi compagni. Sono orgogliosa di aver mentito, perché mentire sotto tortura non è facile. Davanti alla tortura, chi ha coraggio e dignità mente. Questo dialogo è democratico, non è un dialogo tra il mio collo e la forca. Qualsiasi paragone tra la dittatura e la democrazia può arrivare solo da chi non dà valore alla democrazia. Credo che nel 1970 io e lei attraversassimo momenti diversi della nostra vita”.

La spiaggia di Macumba a Rio de Janeiro, 2015. (Vincent Catala, Karma press photo/Vu)

Nei primi anni da presidente Lula aveva girato per il paese inaugurando cantieri e distribuendo abbracci a sindaci e governatori. Rousseff era stata al suo fianco, sempre composta e seria. Nel 2005 era scoppiato il caso mensalão, il primo grande scandalo di corruzione dell’era Lula (i deputati di altri partiti avevano ricevuto pagamenti mensili in cambio di voti a sostegno del governo). Molti parlamentari del Pt erano stati coinvolti, ma Rousseff ne era uscita rafforzata e aveva preso il posto dell’allora capo di gabinetto José Dirceu, che si era dimesso a causa dello scandalo. Era il giugno del 2005 e Rousseff sarebbe rimasta in carica fino alla fine del secondo mandato di Lula, nel 2010.

Nonostante le accuse di corruzione che pesavano sul governo, infatti, nel 2006 Lula fu rieletto. La situazione economica del paese era buona e i brasiliani riconoscevano all’ex sindacalista di essere riuscito a ridurre la povertà estrema. Il Brasile fu scelto come sede per i Mondiali del 2014 e per le Olimpiadi del 2016. Superò perfino la crisi internazionale del 2008, anche grazie a un fattore che sancì il successo definitivo di Dilma Rousseff: il programma di accelerazione della crescita (Pac). Lula voleva che Rousseff riunisse in questo programma i grandi progetti infrastrutturali, soprattutto quelli per le reti fognarie e per i complessi abitativi. L’ambizione era investire fino al 2010 più di cento miliardi di dollari in lavori pubblici che lasciassero un’eredità visibile, in particolare nelle aree più povere del paese.

Rousseff era sulla cresta dell’onda. Lo capì anche Lula, che cominciò a parlare con i suoi collaboratori della possibilità di sceglierla come candidata alla presidenza per il Partito dei lavoratori.

Sapendo di dover affrontare una campagna elettorale, Rousseff si sottopose ad alcuni interventi chirurgici: si operò agli occhi e fece un lifting per ridurre le rughe e le occhiaie. La sua candidatura fu lanciata ufficialmente nel luglio del 2010, con Lula in camicia rossa che alzava il braccio della sua prescelta e un’ovazione travolgente alla convenzione nazionale del Pt.

Una democrazia forte
Prima che succedesse tutto questo, Rousseff aveva incontrato l’ex marito Carlos Araújo e la figlia, per dirgli che aveva una malattia grave: “Ci dette appuntamento e ci confessò di avere un tumore”, ricorda Araújo. Tutto era nato dalla scoperta di un piccolo rigonfiamento sotto l’ascella, durante una visita di controllo del dottor Roberto Kalil, lo stesso di Lula. Il 3 aprile 2009 Rousseff era stata ricoverata per farsi togliere un nodulo di due centimetri. La diagnosi del linfoma era stata confermata e la notizia era stata data ai giornalisti. Rousseff si era presentata in tv all’ora di punta, sul canale Rede Globo. “Affronto questa malattia per uscirne più forte”, aveva dichiarato. E così aveva fatto, senza nascondere la chemioterapia, la caduta dei capelli, la parrucca e il gonfiore provocato dai farmaci. All’inizio del 2010, prima di lanciare ufficialmente la sua candidatura, la malattia era stata dichiarata in remissione. E lei aveva detto in un’intervista: “Il cancro spaventa perché è associato alla morte. La mia esperienza è stata quasi opposta: per me il tumore è legato alla capacità di superare le difficoltà”.

La sua immagine pubblica si rafforzò e, in campagna elettorale, fu presentata come la “guerriera” che esce vittoriosa da ogni sfida senza mai farsi abbattere.

Lula da Silva è stato un elemento fondamentale nella campagna elettorale di Dilma Rousseff del 2010. Infiammava le masse nei comizi, criticava i rivali e parlava di Rousseff come presidente quando non la conosceva quasi nessuno. Le strade erano piene di manifesti dell’ex presidente e leader del Pt in compagnia della sua ministra più potente. Così le percentuali di sostegno a Rousseff sono salite fino all’euforica serata del 31 ottobre 2010 nel palazzo di Alvorada a Brasília, quando è stata annunciata la sua vittoria al ballottaggio con il 56 per cento dei voti, contro il 44 per cento ottenuto da José Serra, del Partito socialdemocratico brasiliano (Psdb, di centrodestra).

Intorno a mezzanotte Rousseff è uscita dalla stanza dove aveva seguito le elezioni per andare al centro congressi. Lì l’aspettavano simpatizzanti, compagni di partito e giornalisti provenienti da tutto il mondo. Nel tragitto dall’ascensore al palco, Rousseff ha distribuito baci e abbracci tra stelle, bandiere rosse e slogan sindacali. Quando è arrivata sul palco tutto è diventato molto più neutro. Nel suo primo discorso da presidente, trasmesso in diretta su tutte le tv principali del paese, ha dichiarato: “Lancio un appello alle aziende, ai politici, alle chiese e all’università perché lottino contro la disuguaglianza. Non potremo darci pace fino a quando ci saranno brasiliani che hanno fame o vivono per strada”.

Chiunque si sarebbe dato per vinto con la metà dei problemi che ha lei

Il suo programma prevedeva una lunga lista di proposte sociali, educative e sanitarie: eliminare la povertà estrema, dotare di acqua potabile tutta la popolazione, costruire istituti professionali e migliaia di asili, espandere i centri per l’assistenza sanitaria in tutto il Brasile. E anche una serie di misure macroeconomiche per favorire la crescita senza perdere di vista il controllo dell’inflazione. Un anno dopo il suo arrivo al palazzo del Planalto, la popolarità di Rousseff aveva raggiunto indici superiori anche a quelli del suo mentore. L’ombra lunga dell’ex presidente Lula, però, comportava l’accettazione di molti dirigenti che arrivavano dalla sua gestione. Ma è stato subito chiaro che la presidente non era il tipo da fare concessioni. Rousseff ha mostrato fin dall’inizio la sua faccia più severa: nel primo anno di mandato ha chiesto le dimissioni di sette ministri accusati di corruzione. Tutti avevano ricoperto ruoli importanti durante i governi di Lula.

Nonostante i dati incoraggianti dei sondaggi, il governo non è riuscito a far crescere il paese al ritmo dei dieci anni precedenti: il 2,7 per cento nel 2011, lo 0,9 per cento nel 2012. Queste cifre sono state interpretate dal governo come una conseguenza della crisi internazionale del 2008. L’economia brasiliana ha rallentato e gli investimenti sono diminuiti.

L’avenida Presidente Vargas a Rio de Janeiro, 2015. (Vincent Catala, Karma press photo/Vu)

Nel gennaio del 2013 una protesta contro l’aumento delle tariffe dei trasporti pubblici urbani si è estesa in poco tempo a tutto il paese. A São Paulo il rialzo del biglietto era stato del 7 per cento, una percentuale inferiore all’inflazione di quell’anno. Ma, secondo i manifestanti, dover pagare ancora di più per un servizio pubblico di per sé già caro era una cosa inaccettabile. Quel germe di protesta, che aveva come bersaglio sindaci e governatori, è arrivato fino alla presidente. Il culmine è stato raggiunto quando sono venuti a galla gli sprechi per l’organizzazione dei Mondiali e delle Olimpiadi. Secondo i manifestanti, che all’inizio erano soprattutto studenti di sinistra, il paese aveva bisogno di scuole e ospedali, non di stadi. Il 18 giugno più di un milione di persone hanno manifestato in quattrocento città. Le conseguenze sono state immediate: il giorno dopo i governi di undici grandi città hanno fatto marcia indietro, rinunciando all’aumento delle tariffe per i trasporti pubblici.

Il 21 giugno Dilma Rousseff ha dato ragione ai manifestanti in un discorso trasmesso dalla tv nazionale: “Le dimensioni delle manifestazioni confermano l’energia della nostra democrazia, la forza della voce delle piazze e la civiltà della nostra popolazione. La mia generazione sa quanto ci sia costato tutto questo. Ora voglio dire che il mio governo sta ascoltando i manifestanti. È bello vedere così tanti giovani e adulti che difendono un paese migliore. Il Brasile è orgoglioso di loro”.

Questo gesto di apertura verso chi protestava non è comunque riuscito a impedire la diffusione del malcontento.

“Dilma Rousseff ha tagliato i ponti con la società, non ascolta i movimenti sociali critici, parla solo con i settori che sono dalla sua parte. Per questo non è nelle condizioni politiche per guidare i cambiamenti chiesti dal Brasile”, afferma Apolo Heringer Lisboa, ex guerrigliero, uno dei fondatori del Pt e oggi ambientalista critico nei confronti della gestione di Rousseff.

Pelle dura
I movimenti ecologisti hanno sempre rimproverato alla presidente di non occuparsi abbastanza delle questioni ambientali. Secondo Rousseff il completamento della centrale idroelettrica di Belo Monte, la terza diga più grande del mondo, fornirebbe al Brasile un fiume di megawatt puliti e rinnovabili a basso costo. Ma per farlo bisogna distruggere migliaia di ettari di foresta e allontanare decine di comunità indigene che vivono lungo il fiume Xingu, senza nessuna garanzia di efficienza. Inoltre nel 2015 Rousseff ha nominato ministra dell’agricoltura Kátia Abreu, in prima linea nella difesa dei grandi proprietari terrieri e quindi ostile al movimento dei Sem Terra.

Presto è affiorato un altro problema: la corruzione. Prima con la sentenza definitiva del caso mensalão, nel 2013, che ha confermato la condanna di vari pezzi grossi del Partito dei lavoratori. Poi, nel 2014, con l’avvio dell’inchiesta lava jato, ancora in corso. Le indagini sulla malversazione sistematica di fondi dell’azienda petrolifera statale Petrobras hanno spinto Rousseff a smentire di essere mai stata a conoscenza di attività illegali (dal 2003 al 2010 Rousseff è stata presidente del consiglio d’amministrazione della Petrobras). Alti dirigenti della compagnia e politici del suo partito ricevevano tangenti dalle maggiori società di appalti del paese in cambio di contratti sostanziosi. “Non credo che la presidente sia coinvolta personalmente ma sapeva quello che faceva il suo partito”, sostiene Apolo Heringer Lisboa. Molti testimoni invece non hanno dubbi circa l’onestà della presidente: “È una donna che ha sempre combattuto, solidale, onesta e sempre preoccupata delle disuguaglianze sociali”, sostiene Eleonora Menicucci de Oliveira, sua amica personale e ministra per le donne fino all’ottobre del 2015.

Si sa poco della vita privata attuale della presidente. Oggi Dilma Rousseff, vicina ai settant’anni, ha la pelle sempre più dura, anche per le difficoltà che vive il suo governo. Nel 2014 il paese è stato colpito dalla crisi economica e la crescita è stata quasi nulla. La produzione industriale si è ridotta di un terzo, i consumi sono crollati, mentre sono aumentati i prezzi ed è cresciuta la disoccupazione. Quell’anno, in piena crisi internazionale del petrolio, e a due mesi dalle elezioni, il Brasile è entrato in recessione. Sembrava che la rielezione non fosse alla portata di Rousseff e in effetti è stata la campagna elettorale più combattuta della storia democratica del paese, con dibattiti accesi tra la stessa Rousseff, Aécio Neves e Marina Silva, che aveva preso il posto di Eduardo Campos, morto il 13 agosto in un incidente di elicottero. Ma la strategia dello specialista in campagne elettorali del Pt João Santana (che sarebbe poi stato arrestato alla fine di febbraio del 2016 nell’ambito dello scandalo lava jato) – attaccare per non doversi difendere – ha funzionato. Rousseff è stata presentata come una donna coraggiosa, che aveva sfidato la dittatura. E al ballottaggio del 26 ottobre ha vinto contro Aécio Neves per tre milioni di voti, che in Brasile sono solo tre punti percentuali. Hanno votato per lei più i brasiliani poveri di quelli ricchi, il nord più del sud.

“È impossibile che una persona che ha fatto militanza negli anni sessanta non sia una politica solida”, afferma il ministro della comunicazione sociale Edinho Silva. “Rousseff ha ottime capacità gestionali, ma è anche una grande leader. Se è diventata presidente, è stato grazie al suo percorso da militante. Ecco perché in questo momento difficile è lei a guidare le politiche del governo”. Secondo i suoi collaboratori, Rousseff non ha un buon carattere: vuole che le cose siano fatte esattamente come dice lei. Come ha detto una volta un deputato del Pt a São Paulo: “È molto democratica, se tu sei d’accordo con lei al cento per cento”.

Il 26 ottobre 2014, la sera della vittoria, davanti alla spaccatura evidente dell’elettorato, Rousseff si è presentata con un atteggiamento sincero: “Voglio essere una presidente migliore di quanto non lo sia stata finora”. Il giorno della sua investitura ha chiesto un patto contro la corruzione e il sostegno del parlamento.

Ma non ha ottenuto nessuna delle due cose. Anzi, i problemi si sono aggravati. Neanche il nuovo gabinetto, in cui spiccava un ministro dell’economia neoliberista, Joaquim Levy, ha fatto cambiare andamento all’economia. Levy ha promosso manovre fiscali per correggere gli errori di gestione, ma ha incontrato la resistenza di alcuni settori del Pt che l’hanno accusato di accelerare la recessione. E nel dicembre del 2015 si è dimesso.

Il 2015 è stato l’anno più difficile per Dilma Rousseff da quando è presidente. Si calcola che l’economia brasiliana si sia contratta circa del 3 per cento. Secondo le previsioni fatte a gennaio dalla Banca centrale brasiliana, nel 2016 l’economia del paese si ridurrà del 2,95 per cento. I dati del Fondo monetario internazionale parlano del 3,5 per cento.

Oggi il Brasile è in caduta libera per una combinazione di fattori economici e politici che stanno provocando un effetto domino. Scende il pil, aumentano l’inflazione e la disoccupazione. Lo stato interviene, ai mercati non piace, crolla la borsa, diminuisce il rating e sprofonda il dollaro. Si tagliano gli stipendi, gli impieghi pubblici e i bilanci, aumentano le tasse, ne risentono i programmi sociali. Nell’anno delle Olimpiadi, il paese che ha speso dieci miliardi di dollari per preparare l’evento taglia gli investimenti alle infrastrutture e agli stadi. Il Brasile è passato dalla crescita più grande e sostenuta tra i paesi emergenti alla peggiore crisi dagli anni trenta. Da una stabilità politica inedita, con un partito di sinistra al potere per più di dieci anni, all’ingovernabilità. Ma Rousseff resta al suo posto, anche se è sempre più alle strette e aspetta l’esito della procedura di messa in stato di accusa. Chi la conosce dice che è a suo agio nelle situazioni difficili e quando qualcuno la sfida la sua testardaggine la spinge a contrattaccare. È più brava di fronte alle avversità e di solito le supera a testa alta.

“Sa quello che vuole e non si lascia dominare dagli eventi”, afferma l’ex marito Araújo. “Chiunque si sarebbe dato per vinto con la metà dei problemi che ha lei, ma Dilma non è così. E non lo sarà mai”.

(Traduzione di Francesca Rossetti)

Questo articolo è stato pubblicato l’8 aprile 2016 a pagina 48 di Internazionale con il titolo “Dilma Rousseff e l’arte di sopravvivere”. Compra questo numero | Abbonati

La versione originale è uscita su Gatopardo.

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