10 novembre 2023 11:32

I colloqui in corso in Arabia Saudita dal 29 ottobre tra le parti in conflitto in Sudan hanno dato i primi risultati: il 7 novembre è stato raggiunto un accordo che mira a facilitare la distribuzione degli aiuti umanitari e a mettere in atto delle misure per ripristinare la fiducia, come la ripresa delle comunicazioni dirette tra i belligeranti o l’impegno a evitare nei loro proclami eccessi retorici e istigazioni alla violenza.

Non è ancora un cessate il fuoco, ma è un piccolo progresso, dopo sette mesi di violenti scontri tra le forze guidate dal capo dell’esercito Abdel Fattah al Burhan e quelle del suo ex vice, Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemetti, leader delle Forze di supporto rapido (Rsf), e una serie di cessate il fuoco che sono durati solo pochi giorni.

Nell’ultima settimana la situazione sul campo è tornata a scaldarsi, con una ripresa dei combattimenti un po’ in tutto il Sudan. Il 2 novembre almeno quindici civili sono rimasti uccisi quando dei colpi di artiglieria sono finiti su alcune abitazioni della capitale Khartoum. Il giorno dopo più di venti persone sono morte in un bombardamento su un mercato alla periferia della città. Il 7 novembre è scoppiato un grande incendio in un’importante raffineria a settanta chilometri da Khartoum, con le Rsf e l’esercito che si sono accusati a vicenda di essere responsabili dell’accaduto.

Negli stessi giorni, riporta Middle East Eye, le Rsf, guidate dal fratello di Hemetti, Abdul Rahim Hamdan Dagalo, hanno conquistato terreno, riuscendo a estendere il loro controllo su buona parte del Darfur. Secondo il sito specializzato in notizie dal mondo arabo, in quell’area l’esercito sudanese mantiene una presenza solo nel Nord Darfur, che ha come capoluogo Al Fashir.

Il crimine più taciuto
Anche in Sudan lo stupro è usato come arma di guerra. Nel paese devastato dai combattimenti tra due forze armate rivali, le sopravvissute possono contare solo sul sostegno di alcune reti civiche

L’avanzata delle Rsf ha causato la fuga di centinaia di migliaia di persone. Secondo l’ong Medici senza frontiere, citata dalla Bbc, da lunedì almeno settemila persone hanno attraversato la frontiera per raggiungere il Ciad. La Bbc riporta testimonianze che raccontano dell’arrivo dei miliziani in cittadine come Erdamta in sella a cavalli, cammelli e motociclette, per poi compiere stragi e stupri, in particolare ai danni della popolazione non araba. In questi ultimi attacchi si contano circa settecento vittime.

Come sempre, il bilancio delle violenze commesse in Sudan è molto incerto. Secondo una stima prudente dell’ong Armed conflict location & event data (Acled), finora sono più di diecimila le vittime della guerra, ma si teme che il numero reale sia più alto, perché non sempre morti e feriti vengono portati negli ospedale o negli obitori, e quindi registrati ufficialmente. Secondo le Nazioni Unite la guerra ha costretto circa 5,6 milioni di persone a lasciare le loro case, scappando in altre parti del paese o all’estero.

Su Arab News il fotogiornalista Robert Bociaga descrive invece un fenomeno inverso, raccontando che il Sudan è diventato un polo d’attrazione per i combattenti che arrivano da tutto il Sahel, in particolare da Ciad, Repubblica Centrafricana e Libia per unirsi ai ranghi delle Rsf, che sono formate da circa centomila unità. Le forze di Hemetti sono un insieme di milizie, gruppi armati locali e mercenari stranieri, il cui nucleo è formato da arabi nomadi del Sudan occidentale e arabi ciadiani, molti dei quali parteciparono alla guerra del Darfur dell’inizio degli anni duemila tra le file dei temuti janjawid.

In un recente editoriale il Washington Post riprende una dichiarazione del sottosegretario generale per gli affari umanitari dell’Onu, Martin Griffiths, che ha definito il Sudan “uno dei peggiori incubi umanitari della storia recente”, sottolineando che questa crisi non riceve l’attenzione che merita.

Il quotidiano la accomuna a un’altra situazione di instabilità, quella del Niger, dove i militari stanno consolidando il loro potere dopo il colpo di stato di fine luglio. L’isolamento internazionale e le sanzioni, però, hanno causato carenza di cibo, elettricità e medicinali, portando sofferenze alla popolazione. Per di più, da quando la giunta militare di Niamey ha chiesto l’allontanamento delle truppe francesi, i miliziani jihadisti hanno intensificato i loro attacchi nel paese.

“Con così tante altre crisi che richiedono l’attenzione del mondo, si potrebbe essere tentati di liquidare il Sudan e il Niger come casi disperati. Ma sarebbe un errore. Anche il minimo cambiamento prodotto da un’attenzione costante e da un serio lavoro diplomatico, potrebbe permettere di salvare delle vite umane”, conclude il Washington Post.

Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.

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