01 dicembre 2023 11:57

“Ciclo di violenze senza fine”, “male assoluto”, “genocidio”: i termini usati nelle ultime settimane dai rappresentanti delle Nazioni Unite o delle organizzazioni per i diritti umani riguardo alla guerra in Sudan sono sempre più forti. Devono attirare l’attenzione del mondo verso una tragedia che continua ad aumentare di proporzioni, ma di fronte alla quale la comunità internazionale rimane in gran parte passiva.

La lotta per il potere tra le Forze di supporto rapido (Rsf), guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo detto “Hemetti”, e l’esercito sudanese comandato da Abdel Fattah al Buhran, va avanti ormai da sette mesi e ha cambiato in un certo senso natura, da quando le Rsf hanno cominciato a espandere il loro controllo nell’ovest del paese, nel Darfur, la stessa regione che una ventina di anni fa fu teatro di un conflitto sanguinoso.

I numeri parlano da soli: i combattimenti hanno causato più di diecimila morti, secondo l’ong Acled. La crisi umanitaria è enorme. Secondo il bilancio dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, da metà aprile 6,3 milioni di persone hanno dovuto abbandonare le case per scappare in altre parti del paese o all’estero. Il Sudan è ora il paese con il più alto numero di sfollati interni del mondo: 5,1 milioni, che hanno trovato rifugio in 5.437 località sparse su tutto il territorio nazionale.

Sempre da metà aprile sono state denunciate 3.130 gravi violazioni dei diritti dei bambini (uccisioni, menomazioni, violenze sessuali, reclutamenti forzati), la metà delle quali in Darfur. Per non parlare degli ospedali distrutti, delle scuole chiuse, delle raffinerie bruciate e tutto il resto.

La regione del Darfur è tornata al centro dell’attenzione all’inizio di novembre, quando sono arrivate le notizie del massacro di Ardamata, nello stato del Darfur Occidentale, vicino al confine con il Ciad. In quella località le Rsf e le milizie arabe loro alleate sono accusate di aver ucciso 1.300 persone di etnia masalit in un campo per sfollati e nelle vicinanze, facendo gridare alla pulizia etnica. Altre ottomila persone sono fuggite in Ciad. Ma già prima di questo episodio, tra giugno e agosto, c’erano stati altri spostamenti di massa causati da attacchi contro i masalit ad Al Geneina, il capoluogo del Darfur Occidentale.

Come vivono le persone che hanno dovuto lasciare le loro case? Lo racconta un breve documentario della tv francotedesca Arte, che mostra la vita dei profughi sudanesi provenienti da Al Geneina insediatisi ad Adré, in Ciad, a soli trenta chilometri dal confine tra i due paesi. Izedin sta attraversando la frontiera per raggiungere i suoi familiari. Per passare deve affrontare dei controlli di sicurezza perché i ciadiani non vogliono far entrare armi, ma alla fine arriva il via libera per tutti. La famiglia di Izedin vive in un enorme campo di tende sorto fuori di Adré, la cui popolazione è quintuplicata da quando è cominciata l’emergenza.

La Croce rossa ha creato dei call center dove i rifugiati possono andare a chiamare i familiari rimasti in Sudan. C’è un ospedale da campo che deve curare casi molto gravi con pochissimi mezzi a disposizione, e un solo psicologo per decine di pazienti affetti da disturbi dovuti ai traumi subiti. “Quando le parli, lei dimentica un po’ il suo dolore”: è il consiglio dello psicologo Omer a una zia la cui nipote fa terribili incubi notturni.

La vita al campo è per definizione transitoria e alcune persone vengono trasferite più lontano dal confine, a Metché, per una migliore protezione da possibili incursioni oltre frontiera delle milizie sudanesi. Zeinab, una giovane donna, accetta di partire, allettata dalla promessa che avrà una casa tutta per sé. Ma a un mese dal suo arrivo nel nuovo campo è ancora in attesa di un alloggio.

Si calcola che siano più di mezzo milione i profughi sudanesi in Ciad, e le risorse a disposizione sono molto limitate. Il Programma alimentare mondiale denuncia che senza ulteriori fondi i sudanesi a gennaio resteranno senza aiuti.

Ora l’attenzione si concentra sul capoluogo dello stato del Darfur Settentrionale, Al Fashir, dove secondo alcuni analisti stanno convergendo le Rsf e, in reazione a questa mobilitazione, si sta creando uno schieramento di forze opposte, che raccoglie esponenti degli ex gruppi ribelli darfuriani, come il Jem di Gibril Ibrahim o lo Sla-Mm di Minni Minnawi (oggi governatore del Darfur). Questi due leader hanno dato il loro sostegno all’esercito sudanese, abbandonando la posizione di “neutralità” mantenuta finora. A fargli cambiare idea, spiega Minnawi, sono stati gli attacchi delle Rsf contro i civili. Un nuovo elemento si aggiunge sul campo di battaglia sudanese, complicando lo scontro, e rendendo sempre più elusiva la prospettiva di un’interruzione delle ostilità.

Questo testo è tratto dalla newsletter Africana.

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