22 marzo 2024 13:10

Questo articolo è stato pubblicato il 13 settembre 2019 nel numero 1324 di Internazionale

Quando circa dieci anni fa i primi volontari cristiani evangelici si presentarono nell’insediamento religioso di Har Brakha, in Cisgiordania, offrendosi di raccogliere gratis l’uva per i contadini ebrei del posto, non tutti li accolsero a braccia aperte. Dopotutto, per generazioni gli ebrei hanno imparato che quando i cristiani si dimostrano gentili probabilmente è perché in segreto stanno complottando per convertirli, quindi è meglio mantenere le distanze.

Da allora molte cose sono cambiate. Ci sono ancora coloni ebrei non del tutto a proprio agio all’idea di cristiani che vivono in mezzo a loro e lavorano nei loro campi. Ma è raro che quei coloni protestino.

Hayovel, l’organizzazione statunitense che porta i volontari ad Har Brakha, fa parte di una lista sempre più lunga di gruppi evangelici attivi nel cosiddetto “cuore delle terre bibliche”. Negli ultimi dieci anni ha portato più di 1.700 volontari esclusivamente nelle colonie in Cisgiordania, perché per una questione di principio i partecipanti non assistono i contadini all’interno del territorio di Israele.

Per spiegare l’attaccamento di Hayovel a queste terre contese, che la maggioranza della comunità internazionale non riconosce come parte di Israele, nel sito si legge: “Tutti i paesi del mondo hanno voltato le spalle alla Giudea e alla Samaria, il cuore di Israele, dove si sono svolti l’80 per cento dei fatti narrati nella Bibbia”. Il riferimento è alle due regioni storiche citate nel testo sacro. Per anni Hayovel ha lavorato evitando di attirare l’attenzione, convinta che meno israeliani conoscevano la sua attività, meglio era.

Oggi non è più così. L’organizzazione non profit è più che felice di ospitare giornalisti e curiosi nel suo campus principale, nella colonia di Har Brakha, con vista sulla città palestinese di Nablus. Questo desiderio di mostrare alla luce del sole le sue attività dimostra quanto le interazioni tra cristiani evangelici statunitensi e coloni ebrei siano diventate la norma.

Quello che si aspettano

The heart of Israel (anche nota come Binyamin fund) è un’altra organizzazione caritatevole che trae beneficio da questi legami. Creata tre anni fa, raccoglie centinaia di migliaia di dollari all’anno destinati a progetti nelle colonie. Il suo fondatore Aaron Katsof, di origini statunitensi, sostiene che gli evangelici sono i donatori più numerosi, anche se contribuiscono per meno della metà del denaro. Katsof vive nella colonia di Shiloh, in Cisgiordania. Ha deciso di creare The heart of Israel quando si è reso conto del forte desiderio degli evangelici di stabilire un legame con gli insediamenti: “Quando atterrano a Tel Aviv spesso mi dicono che non è così che immaginavano Israele. Ma quando arrivano negli insediamenti, dicono che è esattamente quello che si aspettavano”. E aggiunge: “Sono i nostri migliori alleati”.

La sua non è l’unica organizzazione che cerca di trasformare in dollari l’ondata di sostegno evangelico al movimento dei coloni. Ma valutare la portata di questo sostegno è difficile, perché gli enti senza scopo di lucro e le chiese registrate negli Stati Uniti non devono dichiarare le proprie fonti di finanziamento né specificare a chi danno i soldi. Inoltre, una parte della beneficenza assume una forma non monetaria, come le ore di lavoro gratuito o i servizi di promozione e vendita.

Un rapporto del 2015 dell’istituto israeliano progressista Molad ha cercato di quantificare il denaro investito nelle colonie dalla comunità evangelica. Il documento conclude che è praticamente impossibile farlo, anche perché “molte ong israeliane attive in Giudea e Samaria non rispettano pienamente le regole di trasparenza e non dichiarano i bilanci all’ufficio competente, violando la legge”.

Volontari cristiani dell’organizzazione Hayovel nella colonia israeliana di Ofra, in Cisgiordania, il 26 agosto 2018. (Corinna Kern, Laif/Contrasto)

Tuttavia il rapporto afferma che una “quota notevole” degli investimenti evangelici in Israele finisce al di là della Linea verde (i confini israeliani precedenti al 1967) e che tra i beneficiari figurano consigli regionali, ong di destra, avamposti illegali, attività economiche e agenzie di viaggi specializzate in tour delle colonie. Un’analisi dei bilanci delle principali organizzazioni attive nella raccolta fondi tra gli evangelici per finanziare progetti negli insediamenti indica che in termini assoluti le cifre sono ancora relativamente piccole. Ma sembrano in crescita. Inoltre le iniziative di questo tipo si moltiplicano. In base a questa analisi e ai dati sui singoli progetti, il valore totale dei finanziamenti raccolti negli ultimi dieci anni si può stimare tra 50 e 65 milioni di dollari.

Nelle colonie della Cisgiordania vivono circa 400mila ebrei, che costituiscono quasi il 6 per cento della popolazione ebraica di Israele e dei territori occupati. Si stima che due terzi di loro siano religiosi. Dato che tradizionalmente gli ebrei ortodossi sono più diffidenti dei laici nei confronti dei cristiani, il consolidamento dei rapporti con la comunità evangelica non era scontato. “C’era da aspettarsi che la comunità religiosa sarebbe stata l’ultima ad accogliere questo aiuto”, dice il rabbino Tuly Weisz, editore di Israel365, una newsletter quotidiana inviata a 150mila evangelici nel mondo. “Ma credo che questa sia la relazione più logica”, aggiunge. “I cristiani sostengono Israele in generale, e la Giudea e la Samaria in particolare, su basi bibliche. In questo gli ebrei religiosi possono certamente immedesimarsi”.

Come fa notare il rabbino, inoltre, gli evangelici che hanno sostenuto l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti in seguito hanno fatto pressioni perché adottasse politiche in linea con le posizioni del movimento dei coloni, come il trasferimento dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme e il via libera alla costruzione di nuovi insediamenti in Cisgiordania. “Per questo molti esponenti della comunità ebraica religiosa sono ben disposti ad accettare l’amicizia degli evangelici”, spiega Weisz.

Nel 2018 Hayovel ha raggiunto un importante risultato per ottenere legittimità in Israele: il ministero degli affari strategici israeliano ha stanziato una somma fissa da destinare all’organizzazione. Non per il lavoro nei campi, ma per l’attività di promozione di Israele e del movimento dei coloni nelle comunità evangeliche all’estero. La cifra iniziale è di 16mila dollari all’anno, ma in futuro aumenterà.

Lo stesso linguaggio

In questo momento sembra che siano più le cose che uniscono la destra cristiana statunitense e la destra ebraica rispetto a quelle che le dividono. Tomer Persico, docente allo Shalom Hartman institute di San Francisco, nota che molti rabbini delle colonie hanno superato il loro rifiuto istintivo dei cristiani perché la comunità evangelica è stata di grande aiuto nel promuovere i loro interessi, e non solo sul piano politico. “Questa nuova cooperazione è basata sul comune rifiuto di un ritiro di Israele dalla Giudea e dalla Samaria, ma anche su una visione del mondo conservatrice per quanto riguarda le relazioni di genere, i diritti lgbt, i diritti delle minoranze, il ruolo della religione nella sfera pubblica e il nazionalismo”, spiega Persico. Il docente nota che i conservatori religiosi da entrambe le parti hanno trovato un sostegno reciproco e un linguaggio comune: “Ormai i sionisti religiosi israeliani somigliano molto ai repubblicani evangelici statunitensi”.

Aaron Lipkin, portavoce della colonia di Ofra, osserva che molti dei rabbini ortodossi che erano contrari ai tentativi di avvicinamento dei cristiani oggi hanno abbassato i toni. E che dall’elezione di Trump l’atteggiamento sta cambiando anche tra la gente comune. Lipkin ha un’agenzia di viaggi specializzata in tour degli evangelici nelle colonie. È una nicchia, spiega, che si è dimostrata molto redditizia: “Questa gente è davvero appassionata alla Bibbia. Purtroppo, il 99 per cento dei turisti che visita questo paese non va dove sono avvenuti gli eventi biblici. Con il mio lavoro voglio cambiare questa situazione”.

La Christian friends of Israeli communities (Cfoic) raccoglie ogni anno circa un milione di dollari per progetti nelle colonie, e quasi tutte le donazioni arrivano dagli evangelici. Creata nel 1995, la Cfoic è stata la prima organizzazione di beneficenza cristiana a occuparsi esclusivamente delle colonie. A gestire l’impresa è una statunitense originaria di Cleveland e residente nella colonia di Karnei Shomron. Sondra Baras spiega che l’idea di sostenere le colonie si fece strada quando il governo israeliano cominciò a concedere ai palestinesi la sovranità su alcune parti della Cisgiordania (che lei preferisce chiamare Giudea e Samaria) nell’ambito degli accordi di Oslo. I suoi amici evangelici erano così indignati da queste concessioni territoriali che Baras, ebrea ortodossa, propose di creare un’organizzazione che investisse solo nelle colonie.

Via libera

Tra i rabbini sionisti ortodossi, uno dei principali oppositori dei legami tra coloni ed evangelici è Shlomo Aviner, leader spirituale dell’insediamento di Beit El. In un manifesto pubblicato nell’aprile del 2017 Aviner definiva i cristiani amici di Israele “il più grande imbroglio del mondo”. Secondo lui, tutte le forme di aiuto da parte dei cristiani hanno l’obiettivo di cancellare Israele “in un modo o nell’altro”. Gli evangelici infatti, scriveva Aviner, sono i cristiani più pericolosi, perché considerano Israele una tappa necessaria al ritorno di Cristo e credono che alla fine dei tempi, quando la maggior parte degli ebrei sarà stata uccisa, quelli rimasti si convertiranno al cristianesimo: “Ecco perché ci riempiono di amore e denaro”.

Ma a quanto pare Aviner è sempre più in minoranza, soprattutto da quando il rabbino Eliezer Melamed, il leader spirituale di Har Brakha molto rispettato nella comunità sionista ortodossa, ha dichiarato pubblicamente che i cristiani possono lavorare nei campi dei contadini ebrei, purché non svolgano attività missionarie. Il suo giudizio è stato considerato un via libera per i coloni ad accettare l’aiuto degli evangelici statunitensi.

Persico spiega perché gli evangelici sono dei sostenitori così accaniti dei coloni israeliani e delle rivendicazioni ebraiche su tutta la Cisgiordania: per loro “è essenziale che Israele controlli Gerusalemme e la terra promessa, per mettere in moto gli eventi descritti nell’Apocalisse. I coloni non credono a questa storia ma approfittano della fede degli evangelici”.

Sara Yael Hirschhorn, docente di studi israeliani alla Northwestern university, negli Stati Uniti, spiega che “in prima linea nel riavvicinamento tra ebrei ed evangelici” ci sono religiosi statunitensi come il rabbino Shlomo Riskin, fondatore della colonia di Efrat. Originario di New York, Riskin ha creato il Center for jewish-christian understanding and cooperation e collabora con la Christians united for Israel, un’organizzazione con quattro milioni di iscritti fondata da John Hagee, celebre telepredicatore statunitense e pastore di una grande congregazione evangelica.

Minore resistenza

La JH Israel, con sede in Alabama, assegna le sue donazioni quasi esclusivamente ad Ariel, una delle colonie più grandi della Cisgiordania. Heather e Bruce Johnston, che hanno fondato l’organizzazione, erano amici di Ron Nachman, il defunto sindaco di Ariel e tra i primi leader dei coloni a comprendere il potenziale della filantropia evangelica. Ariel è per lo più laica, al contrario di altre colonie in Cisgiordania, per questo c’è stata meno resistenza ad accogliere l’aiuto degli evangelici. Negli ultimi dieci anni la JH Israel ha quadruplicato i fondi per Ariel. Nel 2017 la cifra si aggirava intorno al milione di dollari. Nel tempo i Johnston hanno ospitato decine di allievi delle scuole della colonia di Ariel nel ritiro cristiano che gestiscono nella California del nord. Durante una di queste visite, circa dieci anni fa, fu deciso di creare una struttura di accoglienza simile ad Ariel. Oggi il complesso da due milioni di dollari costruito nella colonia (conosciuto come National leadership center) ospita ogni anno migliaia di studenti israeliani delle scuole superiori. Nel 2018 il ministero dell’istruzione israeliano ha deciso di destinare al centro circa 1 milione di shekel (245mila euro) all’anno. Questo dimostra che il governo usa i soldi dei contribuenti per rafforzare l’alleanza tra coloni ed evangelici.

Tra le colonie Ariel è quella che usufruisce di più della beneficenza evangelica. Nel 2008 la chiesa di John Hagee ha investito otto milioni di dollari in un complesso sportivo nell’insediamento. Hagee ha anche donato quasi un milione di dollari al centro ebraico-cristiano di Riskin a Efrat. Anche se Friends of Ariel, il ramo statunitense della colonia, che si occupa dei finanziamenti, ha rapporti stretti con le chiese evangeliche, non è chiaro quanti dei suoi fondi arrivino dai cristiani.

In un’intervista al quotidiano israeliano Maariv nel 2010, Nachman spiegava di essersi rivolto agli evangelici perché gli ebrei non gli davano soldi: “Le organizzazioni ebraiche all’estero mi boicottano. Preferiscono dare soldi a quei criminali del New Israel fund”, ha detto riferendosi all’organizzazione statunitense che sostiene le cause progressiste in Israele. Su questo aveva ragione: la maggior parte delle organizzazioni filantropiche ebraiche investe poco o nulla nelle colonie.

Invece la International fellowship of christian and jews (Ifcj) e la Christians united for Israel, due delle più note organizzazioni evangeliche di beneficenza impegnate in Israele, finanziano i progetti nelle colonie. Ma questa non è la loro missione prioritaria. Lo stesso vale per le principali organizzazioni evangeliche con sede in Israele, come Bridges for peace, International christian embassy e Christian for Israel. La Ifjc è la più grande organizzazione attiva in questo campo e raccoglie in media 140 milioni di dollari all’anno. Secondo il fondatore, il rabbino Yechiel Eckstein, solo l’1 per cento di questa cifra va negli insediamenti. “Dalle colonie arrivano soprattutto richieste di droni”, spiega.

Ma per comprendere a pieno il sostegno delle comunità evangeliche alle colonie israeliane non basta sommare il denaro raccolto. Blessed buy Israel, per esempio, non distribuisce fondi, ma aiuta a promuovere le attività delle colonie negli Stati Uniti. Fondata da Steve e Doris Wearp, una coppia evangelica del Texas, Blessed buy Israel vende nelle chiese e online i prodotti realizzati da una decina di aziende a conduzione familiare delle colonie. Nel 2017, il primo anno di attività, le vendite ammontavano a 50mila dollari.

Hayovel ha dichiarato che durante la vendemmia del 2018 i suoi 175 volontari hanno raccolto 340 tonnellate di uva nelle colonie, lavorando per un totale di 4.930 ore. Considerando il salario minimo attuale, in tre mesi hanno fatto risparmiare agli agricoltori locali circa 40mila dollari.

Ambasciatori nel mondo

In un giorno di raccolta nei vigneti di Har Brakha, i volontari provenienti da Stati Uniti, Svezia, Norvegia, Hong Kong, Austria e Nuova Zelanda cantavano inni cristiani e alcune delle donne si spostavano lungo i filari portando i bambini sulla schiena. Quando abbiamo chiesto se i contadini si fossero offerti di condividere i profitti con i volontari, il portavoce di Hayovel, Luke Hilton, ha risposto: “Queste persone non sono ricche. Ogni dollaro che gli facciamo risparmiare, possono reinvestirlo nella terra. E noi vogliamo consentirgli di restare su questa terra”.

L’azienda vinicola Tura winery è di proprietà di Nir Lavie, nato in Israele ma cresciuto negli Stati Uniti, dove il padre lavorava come diplomatico. Vivendo all’estero, racconta, ha imparato che non c’è nulla da temere dai cristiani. Quando ha aperto la sua azienda vent’anni fa, nella prima annata ha prodotto tremila bottiglie di vino. Grazie all’aiuto dei volontari di Hayovel la produzione si è ingrandita e oggi arriva a 50mila bottiglie all’anno.

Quando lo incalziamo per sapere quanto denaro ha risparmiato grazie all’aiuto dei volontari, si mette sulla difensiva: “E allora i kibbutz? Non risparmiavano con tutti i volontari dall’estero?”. Ha ragione, certo, se non fosse che i volontari che andavano nei kibbutz di solito ricevevano vitto e alloggio in cambio del loro lavoro. I volontari di Hayovel, invece, devono coprire da soli tutte le spese.

“La cosa importante”, continua Lavie, “è che queste persone diventano ambasciatrici di Israele nel mondo. E anche loro ci guadagnano, perché fare questo lavoro le rende felici. Quindi abbiamo bisogno gli uni degli altri. Ringrazio Dio perché sono qui, e spero che continueranno a venire ancora per due o trecento anni”.

(Traduzione di Francesco De Lellis)

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