23 agosto 2019 12:12

La crisi più immediata che il paese deve affrontare è il conflitto in corso nelle due regioni anglofone, che ha provocato centinaia di morti. Questa situazione però è aggravata da altri due fattori di tensione in Camerun, uno etnico e un altro religioso.

Il presidente Paul Biya, al potere dal 1982, resiste sfidando queste pressioni, ma senza un’azione chiara per contrastarle non potranno che aggravarsi minacciando sempre più il suo potere e il paese.

La crisi anglofona

Il conflitto anglofono è cominciato nel 2016, con gli scioperi di insegnanti e avvocati delle due regioni anglofone. Protestavano contro l’invio di giudici e insegnanti francofoni senza alcuna competenza di diritto consuetudinario e dei sistemi d’istruzione in vigore in queste aree. In un primo momento il governo si era mostrato disponibile a negoziare, ma poi il numero dei manifestanti è andato aumentando e le loro richieste si sono fatte più ambiziose, fino a invocare una maggiore autonomia per le due regioni. Una rivendicazione questa già da tempo avanzata dai nazionalisti anglofoni, determinati a risolvere il problema della marginalizzazione di cui si sentono vittime e a proteggere la loro tradizione anglosassone in un paese a maggioranza francofono.

A questo punto il governo, come già accaduto in passato, ha fatto ricorso alla violenza e agli arresti di massa. La situazione è degenerata rapidamente. Sono emersi gruppi armati che chiedono la totale secessione dal Camerun delle regioni anglofone, che dovrebbero formare lo stato indipendente di Ambazonia. Sono seguiti scontri nel corso dei quali tanto le forze separatiste quanto i militari camerunesi avrebbero commesso diffuse atrocità.

Tre anni dopo il governo di Yaoundé persiste nel ritenere non negoziabile la forma di stato unitario decentralizzato del Camerun. Questa posizione sta diventando però sempre più insostenibile.

Tanto per cominciare, alcuni importanti governi occidentali che in precedenza si erano limitati ad auspicare un dialogo, hanno cominciato a intraprendere passi concreti e sostanziali rispetto al conflitto in atto. Nel mese di febbraio per esempio gli Stati Uniti hanno diminuito gli aiuti militari al Camerun facendo riferimento a gravi violazioni dei diritti umani. A maggio hanno sostenuto il primo vertice del consiglio di sicurezza dell’Onu sul conflitto anglofono. Successivamente, a luglio, la camera dei rappresentanti ha adottato la risoluzione 358 chiedendo al governo del Camerun di ricostituire il sistema federale per tentare di risolvere la crisi. Quello stesso mese la Svizzera, che ha un sistema federale ed è un altro partner importante, ha annunciato di essersi fatta promotrice di un tentativo di mediazione. Pare stia invitando con discrezione Biya a prendere esempio dal suo modello di organizzazione statale territoriale.

Al tempo stesso anche l’opinione pubblica interna si sta modificando. Con l’aggravarsi del conflitto separatista, i francofoni moderati sono sempre più inclini all’idea di uno stato federale, da tempo invocato dai moderati anglofoni.

Nuove rivalità etniche

Accanto alla crisi anglofona, in Camerun si sono aggravate anche le divisioni etniche, soprattutto dopo le elezioni presidenziali del 2018. Al centro di queste tensioni ci sono le rivendicazioni del potere da parte di due gruppi in competizione tra loro.

Il primo, quello dei bamileke, gode di una significativa forza economica in Camerun. Le élite espresse da questo gruppo controllano gran parte dell’economia e dominano il settore manifatturiero. Persone appartenenti a questo gruppo etnico risiedono soprattutto nel Camerun occidentale e hanno forti legami culturali con una delle regioni anglofone, anche se il loro retaggio coloniale è francofono.

Il secondo gruppo, quello formato dall’asse tra bulu e beti, esercita un grande potere politico. Dall’ascesa al potere di Biya, scelto direttamente da Amadou Ahidjo, primo presidente del Camerun, le élite di questo gruppo si sono convinte di essere i dominatori naturali del paese. I beti e i bulu vivono soprattutto nelle regioni centrali e meridionali.

La rivalità etnica è esplosa in occasione delle elezioni presidenziali dell’ottobre 2018, quando il presidente Biya si è candidato per un settimo mandato contro il suo principale sfidante, il bamileke Maurice Kamto. Nel corso della campagna elettorale i sostenitori di entrambi gli schieramenti hanno adottato una retorica etnica incendiaria e gli attacchi xenofobi più violenti sono stati quelli lanciati dal canale Vision4 Television, di proprietà dei bulu.

Alla fine Biya è stato dichiarato vincitore con il 71,2 per cento dei voti, ma Kamto ha contestato i risultati denunciando brogli. Le tensioni sono andate peggiorando e sono sfociate in alcuni violenti attacchi contro le ambasciate camerunesi a Berlino, Parigi e altrove. Kamto, ritenuto da molti il vero vincitore delle elezioni, è stato arrestato e si trova ancora in carcere.

Quattro decenni di dominio coloniale hanno instillato differenze di punti di vista e politica difficili da superare

La repressione scatenata dal governo contro Kamto e i suoi sostenitori riflette il trattamento inflitto in passato ai cittadini anglofoni. Per esempio, le elezioni del 2018 hanno seguito uno schema molto simile a quello già visto nel 1992, quando il principale rivale di Biya era stato l’anglofono John Fru Ndi. Anche quello scrutinio era stato segnato da accuse di brogli e discorsi di odio. Dopo le elezioni Biya aveva messo Ndi, ritenuto il vero vincitore delle elezioni, agli arresti domiciliari dopo aver dichiarato lo stato di emergenza nella regione del nordovest, da cui proveniva Ndi. Il risentimento nato all’epoca si è aggiunto a un crescente senso di esclusione che ha alimentato i sentimenti sfociati nella crisi anglofona in corso.

Tenuto conto delle esperienze condivise di bamileke e anglofoni e delle loro somiglianze culturali, ci si sarebbe potuti aspettare un’alleanza tra questi gruppi. In effetti un dispaccio del 2011 trapelato dall’ambasciata statunitense suggeriva come alcuni membri interni al regime fossero preoccupati dalla prospettiva di una simile “alleanza anglo-bamileke”. In realtà questa alleanza potrebbe nascere ma avrebbe vita breve e si concentrerebbe unicamente sull’obiettivo di porre fine al dominio bulu-beti. Su questioni più importanti, come l’organizzazione dello stato, emergerebbero subito le differenze. Il consenso su questi aspetti non sarebbe impossibile da perseguire, ma quattro decenni di dominio coloniale rispettivamente britannico e francese hanno instillato in questi gruppi differenze di punti di vista e politica difficili da superare.

Un gruppo religioso in attesa

Il Camerun di Biya deve infine affrontare un’ultima divisione, proveniente dagli abitanti del nord del paese, in larga misura musulmani, che pare stiano rivendicando la presidenza per un esponente del loro gruppo dopo Biya. Questo diceva ai diplomatici statunitensi Amadou Ali, un importante esponente del nord che ha già ricoperto in passato importanti incarichi ministeriali, in un dispaccio del 2009 trapelato dall’ambasciata americana. Secondo il documento, Ali prevedeva che le tre regioni settentrionali del Camerun “sosterranno Biya per tutto il tempo che vorrà essere presidente, ma non accetteranno come successore un altro beti o bulu, né un membro del gruppo etnico dei bamileke, più potente dal punto di vista economico”.

Come l’asse bulu-beti, anche i musulmani del nord si vedono come i governanti naturali di un paese la cui popolazione è in larga misura cristiana. E come ha spiegato Ali, non hanno alcuna intenzione di restarsene a guardare un individuo proveniente da un qualsiasi altro gruppo succedere a Biya.

Oggi le divisioni interne al Camerun sono varie e complesse, ma hanno una cosa in comune: tutti vogliono che Biya se ne vada. Perfino, sia pure con meno urgenza, i camerunesi del nord, tra i più stretti collaboratori del presidente e al fianco del suo governo sin dal primo giorno.

Fino a oggi l’obiettivo comune di scacciare Biya non è bastato a unire questi diversi gruppi o imporre un cambiamento. Sullo sfondo di un Camerun in cui le divisioni si fanno sempre più gravi, ci si chiede tuttavia quanto ancora l’ottantaseienne presidente riuscirà a tenere la situazione in pugno.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito su African Arguments.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it