24 marzo 2017 12:39

Il terremoto è più che lo scuotimento della terra, è un fenomeno complesso: quando colpisce un territorio abitato, da evento naturale assume la connotazione di evento sociale. I danni che causa non interessano solo il patrimonio edilizio, ma la totalità delle strutture sociali. Come per ogni calamità, il momento distruttivo è l’acme di un processo di lungo periodo che coinvolge l’attività preventiva, quella dell’emergenza e la fase di ricostruzione.

Questo articolo dovrebbe essere una specie di ponte tra i saperi scientifici che studiano il terremoto e il lettore. Vorrei che riuscisse a far comprendere che il “problema terremoto” è in primo luogo un problema culturale. E vorrei, più di ogni altra cosa, che avesse la forza di denunciare che l’unico modo davvero efficace per contrastare gli effetti del terremoto è la prevenzione. E la prevenzione non riguarda solo la sfera delle tecniche di costruzione, ma ci chiama in causa tutti, cittadini, studiosi e, non da ultimi, i politici.

Come hanno sintetizzato per Internazionale due tra i più impegnati studiosi italiani in materia, Fabio Carnelli e Stefano Ventura: “La prevenzione sismica è un aspetto non solo tecnico ma politico e socioculturale e va potenziato rendendo partecipi i cittadini, che spesso delegano (o sono costretti a delegare) a precise organizzazioni e alle istituzioni locali il compito di agire su strutture e su forme di assistenza e intervento”.

Questo tipo di approccio socioculturale è difficile da maturare anche per chi con il terremoto ha già convissuto.

Io e il terremoto
Ho sempre avuto coscienza di vivere in una zona ad alto rischio sismico. L’Aquila è una città ad alto rischio sismico. Cansatessa, la frazione in cui vivo e che un tempo è stata un paese, nacque dopo il terremoto nella Marsica del 1915 dalle rovine di minuscoli insediamenti rurali di cui ricordo appena un paio di nomi: Linghetto, Le Vasche. Cansatessa non era altro che l’antesignano di cento anni fa dell’attuale Progetto case: sei edifici a un piano costruiti intorno a uno slargo e un fontanile datato 1926.

Avere coscienza di vivere in una zona sismica non è di per sé sufficiente a crescere con una cultura sismica, tantomeno con una cultura della prevenzione sismica. Meno di cento anni bastano a cancellare la memoria collettiva. Nella mia vita scolastica, infatti, non ho mai fatto una prova di evacuazione, neanche antincendio, e fino al 6 aprile 2009 credevo che per ripararsi dai terremoti fosse sufficiente mettersi sotto un tavolo. Nessuno mi ha mai insegnato, se non informalmente, quelle piccole accortezze che in caso di scossa possono salvarti la vita.

Il nucleo storico di Cansatessa, in provincia dell’Aquila, il 9 marzo 2017. (Antonio Di Cecco, Contrasto)

Ciò che sapevo sul terremoto e sulla prevenzione sismica veniva da mio nonno Alarico, classe 1922, cansatessano, piccolo imprenditore edile. Nei suoi racconti il terremoto era un pericolo reale; conosceva le persone estratte vive dalle macerie del 1915 e i nomi di quelle morte. Negli anni sessanta costruì la sua casa incastonando le fondamenta nella roccia, colando il cemento nell’armatura tra le pareti, e non viceversa, perché avesse più resistenza. Nel 1981, durante l’edificazione della casa in cui oggi io vivo, pretese, ormai da supervisore, che il ferro nell’armatura fosse una volta e mezza il necessario. Un costo inspiegabile per i miei genitori. Fino al 6 aprile 2009.

“La casa se po roppe”, diceva in dialetto, “ma non te tè ‘ccie”. La casa si può rompere, ma non ti deve uccidere. E ancora: “Se casca casa me, dell’Aquila non c’è remastu gnenti”, se casca casa mia, dell’Aquila non c’è rimasto niente. Nel 2009 casa sua non riportò la minima crepa, la mia fu definita “bunker” dagli ingegneri che fecero la verifica di vulnerabilità. Mio nonno aveva la quarta elementare.

Dalla retorica alla consapevolezza
L’elaborazione culturale delle catastrofi naturali affonda le sue radici nell’esperienza diretta che da sempre l’uomo ne ha fatto, ma nei secoli questo rapporto impari è sconfinato quasi esclusivamente negli ambiti del folklore e della religione. C’è una data che gli studiosi (Walter Benjamin su tutti) segnano come l’inizio dell’approccio scientifico: il 1 novembre 1755, il terremoto di Lisbona. Illuministi come Voltaire, Rousseau e Kant con i loro scritti determinarono una sorta di cesura: da quel momento la scienza cominciò ad avere maggior peso nello studio delle catastrofi.

Tale ruolo, che si è consolidato nel novecento, ci porta ai giorni nostri, momento in cui il rapporto con il terremoto diventa quasi esclusivamente, questa volta, appannaggio dell’approccio scientifico, relegando folklore e religione alla sfera personale, o a qualche sfuriata radiofonica sulla retorica del castigo divino.

È evidente che gli studi sulle catastrofi aumentino e si concentrino principalmente nei momenti conseguenti alle catastrofi stesse; ed è facilmente verificabile. Se guardiamo solo all’Italia, basta segnalare la proliferazione di testi scientifici dalla fine degli anni sessanta, dal terremoto del Belice, per seguire con l’Umbria, l’Irpinia, L’Aquila, l’Emilia-Romagna. Ma più in generale, ciò che mi pare interessante rilevare è come a ridosso dei disastri l’attenzione aumenti per poi tornare nell’oblio col passare del tempo – come articolano bene Antonello Ciccozzi e Gianfranco Spitilli qui e come Ciccozzi stesso sintetizza: “La consapevolezza culturale del rischio è una faccenda delicata, che oscilla tra il polo della rimozione, dell’incoscienza e quello della psicosi, della paranoia. È un equilibrio da trovare continuamente evitando le opposte tentazioni dell’eccesso di rassicurazioni e dell’allarmismo”.

Tralasciando l’interesse che i mezzi d’informazione dedicano alle calamità – interesse crescente dal punto di vista sensazionalistico e decrescente da quello dell’approfondimento critico – è possibile ritrovare lo stesso tipo di approccio, direi, ambivalente, quasi “emotivo”, anche nell’attività politica.

Le leggi che dall’inizio del secolo scorso hanno migliorato sia la normativa antisismica sia la classificazione sismica italiana sono quasi esclusivamente successive a terremoti distruttivi (qui una lista). E senza aprire una critica a questo tipo di politica ex post, è giusto invece rilevare, nonostante le lacune o la mancata applicazione della normativa vigente, come dopotutto sia maturata una sensibilità istituzionale nei confronti dei terremoti. L’esempio più lampante è dato dalla stessa protezione civile, che nasce proprio sulla scia emotiva seguita all’alluvione di Firenze (1966) e al terremoto del Belice (1968).

Piazza Duomo, L’Aquila, il 9 marzo 2017. (Antonio Di Cecco, Contrasto)

E neanche noi cittadini siamo immuni da questo tipo di atteggiamento nei confronti del terremoto o delle catastrofi in generale. Avviene più o meno così: scossa, cordoglio, vicinanza, condivisione mediatica, trasformazione di luoghi colpiti in simboli, lento distacco, rimozione. È così. Tutti noi, a un certo punto, rimuoviamo la catastrofe, o quantomeno le sue conseguenze reali. L’Aquila, la mia città, ne è un esempio, ricordata, ancora per qualche anno, solo nel giorno della ricorrenza del sisma o se spunta qualche scandalo sulle prime pagine dei giornali. Non è inusuale per noi aquilani incontrare persone in giro per l’Italia e sentirci dire “È stata una tragedia, ma ora va tutto bene, no?”, come se L’Aquila fosse già completamente ricostruita e non l’immenso, complesso, lento e controverso cantiere che invece è.

Sempre Ciccozzi dice: “Mi pare che all’Aquila nel dopo sisma ci sia stata una relativamente lunga fase iniziale caratterizzata da una pericolosa visione troppo spesso improntata alla rimozione del rischio; nell’illusione sciocca, prima che pseudoscientifica, che ormai il terremoto era passato, suggellata dal detto vernacolare ‘tanto mo’ ha fatto, refà fra trecent’anni!’”.

Il tempo lungo del terremoto
Siamo dunque tutti responsabili, in qualche modo, cittadini, giornalisti, studiosi, politici di ogni livello. Responsabili beninteso, non colpevoli. C’è però un’attenuante alle nostre azioni, al nostro approccio errato al terremoto: è il tempo. Viviamo sempre più nell’immediato, sempre più in un presente senza passato e senza futuro, e questo è controproducente se il fenomeno che dobbiamo affrontare ha invece un “tempo di ritorno” lungo (in quella pratica che potremmo definire “disastrologia”). La terra si muove di continuo sotto i nostri piedi ma noi ce ne accorgiamo e ne prendiamo piena coscienza solo quando gli effetti sono distruttivi.

Faccio ancora l’esempio dell’Aquila. Il penultimo grande terremoto che aveva raso al suolo la città risaliva al 1703. Tre secoli fa avvenne qualcosa di molto simile a ciò che abbiamo sotto i nostri occhi oggi. Lo sciame sismico colpì a distanza ravvicinata le stesse zone del centro Italia “sotto assedio” in questi anni, in questi giorni. È difficile negare come in trecento anni la cultura sismica sia praticamente scomparsa, nonostante il verificarsi di altre forti e dannose scosse (1915, 1950, 1958).

Non solo, durante questo “tempo lungo” il piano urbanistico della città è stato praticamente stravolto. Dagli anni venti e ancora più dagli anni settanta, come spiega Samanta Di Persio in Ju tarramutu: la vera storia del terremoto in Abruzzo, si è permesso di costruire nuovi quartieri là dove mai si era costruito (Cristo Re, via XX Settembre, Pettino), zone dove si sono registrati moltissimi danni e numerose vittime. Ed è chiaro che gli interessi economici hanno giocato un ruolo decisivo.

Prosegue Ciccozzi: “L’augurio è che sia finalmente maturata una consapevolezza del rischio che ci consenta collettivamente di abbandonare senza indugio certe tendenze al ‘rattoppo’ per approdare a una politica di massimizzazione della sicurezza che ci dia una ragione, la principale, per non abbandonare questa città”.

Rimaniamo al tempo. Come mio nonno, forse anche la generazione che ha vissuto il terremoto del 2009 manterrà un’attenzione particolare verso la sicurezza degli edifici, ma lo stesso non si può dire per chi verrà dopo di noi. Appare dunque importante un altro aspetto legato al tempo, quello della trasmissione della memoria, una memoria non solo storica e sociale, ma anche viva. Ecco l’aspetto controverso del tempo: se da un lato ha una valenza giustificativa, perché il suo trascorrere è inevitabilmente narcotizzante, dall’altro tale distacco e la rimozione che comporta sono anche la nostra condanna.

Ma, nelle parole di Carnelli e Ventura, “la prevenzione è un lavoro di lungo termine, proprio per questo non c’è un tornaconto spendibile politicamente nell’immediato e per questo è difficile attirare risorse economiche”.

Non c’è altro modo, dobbiamo sincronizzarci al tempo lungo di ritorno del terremoto. E riguardo alla prevenzione, il contributo del geofisico Dario Albarello, Pensare i futuri terremoti (contenuto in Oltre il rischio sismico), mi pare fondamentale.

Semplifico. Secondo Albarello, sono quattro i tipi di previsione (componente naturale del terremoto, cioè, di quale intensità e tipologia) strettamente legati al tempo e all’esposizione (valore economico, culturale, sociale di una struttura): a lungo termine (decine di anni), utile alla pianificazione degli interventi di miglioramento o ricollocazione degli edifici; a medio termine (qualche anno), che può servire a circoscrivere le strutture dove intervenire con maggiore tempestività (ospedali, scuole, eccetera); a breve termine (da mesi fino a qualche ora), nel quale sarebbe necessario preparare la popolazione all’emergenza e reperire le risorse economiche; a brevissimo termine (qualche secondo), tempo in cui è possibile solo sospendere servizi messi a rischio dal sisma (centrali nucleari, ferrovie, eccetera).

L’attività preventiva, dunque, va concentrata su tutti e quattro i tempi, pena l’esposizione a un livello potenziale di rischio. Come accadde per esempio a Fukushima, dove il verificarsi di una tripla crisi (terremoto, maremoto, rischio nucleare) ha fatto addirittura vacillare l’idea stereotipata di efficienza giapponese in caso di emergenza.

Lo scollamento
Esiste una distanza tra le singole parti di una società. È endemico, è normale. Non è normale che questa distanza sia causa di mancanza di comunicazione, o peggio di comprensione reciproca. Pensate allo scollamento che c’è oggi in Italia tra la politica e i bisogni reali dei cittadini. Quando consideriamo il terremoto, la situazione è la stessa. L’impasse che in questi mesi sta bloccando la gestione dell’emergenza nel centro Italia proviene, è inutile negarlo ancora, dalla netta separazione tra gli ambiti di competenza.

Dietro l’affermazione “c’è troppa burocrazia” sbandierata su tutti i giornali, si nascondono dinamiche complesse che mettono in evidenza uno scarso coordinamento tra le istituzioni nazionali, governo e protezione civile, e quelle regionali e comunali, che purtroppo sta causando una voragine tra la volontà politica di aiutare la popolazione e la richiesta di velocità d’intervento di cui hanno bisogno i terremotati.

Nella prevenzione sismica le dinamiche sono identiche. Lo scarto tra la necessità di mettere in sicurezza il patrimonio edilizio, le preziose indicazioni tecniche che arrivano dai diversi saperi scientifici (dall’ingegneria alla psicologia, dalla geologia all’urbanistica), il comprensibile timore delle popolazioni che vivono in zone a rischio e le decisioni politiche troppo spesso inefficienti e prese in base a logiche elettorali di breve termine, creano uno scenario a dir poco allarmante, come è emerso dalla puntata del 27 febbraio di Presa Diretta.

Del resto, come ribascono Carnelli e Ventura, “è certa la totale assenza di un dibattito pubblico su tali temi, un dibattito che affronti in maniera complessa e transdisciplinare la prevenzione e che alimenti un progetto politico”.

La nuova sede del dipartimento di scienze umane e quella vecchia dell’ospedale San Salvatore, L’Aquila, il 9 marzo 2017. (Antonio Di Cecco, Contrasto)

Questo è il nocciolo della questione: la distanza tra i soggetti che si occupano di prevenzione sismica (nonché di gestione dell’emergenza) e le conseguenze che questa distanza comporta. La forte critica mossa da esperti, non solo italiani, provenienti da settori disciplinari come la sociologia e l’antropologia, settori attenti alle dinamiche che legano gli esseri umani o i sistemi sociali alle catastrofi naturali, è pressoché unanime. Affrontare un fenomeno complesso come il terremoto da un unico punto di vista scientifico non solo è ormai gravemente insufficiente, ma se i risultati sono quelli che abbiamo oggi sotto gli occhi, è addirittura pericoloso. Significa illudersi colpevolmente di poter gestire qualcosa che sfugge al nostro controllo.

“In generale”, dice Ciccozzi, “va considerato che, se il ‘come fare’ riguarda scelte tecnico-ingegneristiche, il ‘perché fare’ riguarda scelte politico-culturali che sono condizionate da un’antropologia del rischio troppo spesso non razionalizzata”.

Mentre Carnelli e Ventura ricordano: “Nelle discipline sociali è chiaro almeno dagli anni ottanta che prevenzione e gestione del rischio dovrebbero essere affrontate come processi che coinvolgono più dimensioni e componenti. Se da una parte, però, appare necessario interfacciarsi al rischio sismico in modo interdisciplinare, l’attuale parcellizzazione di ambiti e saperi – complice un’accademia agonizzante – e l’assenza di una governance del rischio sismico inclusiva e reale scoraggiano molto, oppure ostacolano tali riflessioni e pratiche”.

E ancora riporto le parole di Giovanni Gugg, ricercatore che studia l’area vesuviana e le dinamiche di prevenzione legate a una “catastrofe annunciata”: “Negli ultimi anni si è reso urgente un canale di comunicazione con la popolazione maggiormente diretto e quotidiano. È necessario immaginare nuove forme di mediazione tra scienziati, operatori umanitari, legislatori e popolazione, ma anche avviare pratiche di sussidiarietà fondate sulla collaborazione tra amministrazione e cittadini”.

In conclusione
Dunque, non possiamo più permetterci un approccio così superficiale e arretrato nei confronti del rischio sismico. È urgente uno scarto in avanti, prima di tutto al livello culturale, poi mediatico, scientifico, politico e normativo per rendere più sicuro il nostro paese. La tempestività e la messa in condivisione dei saperi sono fondamentali, ma rischiano di non essere sufficienti se alla base non c’è una volontà forte che viene da ogni singolo cittadino.

Dobbiamo maturare una sensibilità diffusa e un impegno pari a quelli del popolo giapponese. Dobbiamo prendere coscienza che viviamo in un paese a costante rischio sismico (e non solo) e che la riduzione del rischio passa esclusivamente tramite la prevenzione del rischio stesso. Dobbiamo sviluppare una cultura della prevenzione sismica seria, realistica ed efficace che investa, che formi tutti gli strati sociali. Non c’è alternativa.

Il terremoto del centro Italia deve essere l’ultima catastrofe a colpirci impreparati e la prossima dovrà essere la prima che sapremo affrontare con i giusti mezzi. Il rischio del terremoto nell’immaginario collettivo deve diventare come il rischio amianto, come il virus dell’aids, come le cinture di sicurezza delle auto, come il fumo passivo delle sigarette: ossia rischi con i quali abbiamo familiarità e confidenza, verso i quali abbiamo sviluppato una consapevolezza sufficiente per controllarne le conseguenze. Dobbiamo comprendere che il problema del rischio sismico deve diventare culturale e politico, e soltanto poi tecnico ed economico.

Ringrazio per l’immenso aiuto Antonello Ciccozzi, Fabio Carnelli, Stefano Ventura e Giovanni Gugg.

Bibliografia essenziale su disastri e prevenzione

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it