10 marzo 2015 13:17

Venerdì 6 marzo il consiglio di amministrazione di Rcs ha dato un primo parere positivo sulla proposta di acquisizione non vincolante di Rcs Libri (Rizzoli) da parte di Mondadori, decidendo a maggioranza di concederle un’esclusiva fino al 29 maggio 2015 “al fine di approfondire termini e condizioni dell’eventuale operazione, riservandosi ogni conseguente valutazione nel merito”.

Solo tra qualche mese il nuovo consiglio d’amministrazione (cda) di Rcs prenderà una decisione definitiva, ma i mercati finanziari credono già in “Mondazzoli”, come mostrano i robusti rialzi di venerdì (Mondadori +7,38 per cento, Rcs Mediagroup +2,71 per cento, e la grossa differenza nell’incremento tra i due è di per sé significativa).

La borsa approva l’operazione precisamente per le ragioni che inquietano altri osservatori: la formazione di un gruppo che controlla quasi il 40 per cento del settore editoriale trade (narrativa e saggistica) e il 25 per cento della scolastica, quindi con un’enorme forza di proposta e contrattazione nei vari ambiti legati al libro.

Dario Franceschini, ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, si è detto “molto preoccupato” per “come funzionerebbero le cose in un paese con un’unica azienda che controlla la metà del mercato, con l’altra metà frammentata in piccole e piccolissime case editrici”. Diverso il giudizio di Matteo Renzi, presidente del consiglio, che in un’intervista all’Espresso, filtrata alle agenzie il giorno prima del cda di Rcs, si “dispiace da italiano” per le difficoltà di Rizzoli-Corriere della Sera ma non mostra alcuna preoccupazione per l’acquisizione in sé, pur dicendo di capire Franceschini.

E ancora: subito dopo il cda Rcs e l’intervista di Renzi, a sua volta Franceschini specifica di comprendere Renzi, continua a dirsi preoccupato per il “settore molto sensibile” del libro e si affida all’autorità garante della concorrenza e del mercato (antitrust), “un’autorità indipendente che valuterà secondo le regole del nostro ordinamento se c’è un rischio di trust o meno”. L’eventuale fusione dovrà, infatti, ottenere il parere positivo dell’antitrust, che ha potere d’intervento per la tutela della concorrenza.

Si potrà forse osservare quanto sia notevole che il presidente del consiglio dei ministri e il suo ministro si comprendano perfettamente su questa operazione di mercato del libro – pur nel perfetto disaccordo su cosa siano i mercati, i libri e le preoccupazioni.

Ma oltre la cronaca delle ultime giornate, andrebbero indagate alcune tendenze di medio e lungo periodo nell’editoria e nella lettura di libri in Italia, per offrire così al lettore un contesto più ampio per formarsi un’idea.

La storia di Mondadori e Rizzoli

Arnoldo Mondadori e Angelo Rizzoli nascono nel 1889 a due giorni di distanza l’uno dall’altro, da famiglie non benestanti, si avvicinano in gioventù al socialismo (in maniera più netta Arnoldo) ed esercitano il mestiere di tipografo. Fondano quindi imprese editoriali – periodici e libri – che diventeranno imperi e prosperano già sotto il fascismo.

L’editore Arnoldo Mondadori (al centro) con gli scrittori Aldo Palazzeschi (a sinistra) e Giorgio Bassani (a destra), Venezia, 1968. (Mondadori Portfolio)

Negli anni trenta del secolo scorso Mondadori pubblica Pirandello, D’Annunzio e altri grandi autori strappati spesso a importanti case editrici dell’epoca immediatamente precedente e s’impone come massimo editore generalista, con un’offerta che va dai “gialli” (lanciati nel 1929) ai grandi classici dell’ottocento, da Topolino (dopo un accordo con la Disney nel 1935) alla Medusa, pregiata collana di letteratura straniera contemporanea.

Rizzoli a sua volta stampa l’Enciclopedia Italiana e la rivista popolare Novella; inoltre, il futuro produttore della Dolce Vita già nel 1934 è attivo nel cinema, anzi avvia quella che Gian Carlo Ferretti nella sua Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003 definisce una “vera e propria operazione multimediale”: propone il romanzo La signora di tutti di Salvator Gotta (scrittore allora di largo successo) in rivista e in volume, produce l’omonimo film di Max Ophüls e lo lancia “attraverso cartoline, manifesti e settimanali popolari”.

Anche nel dopoguerra Mondadori e Rizzoli si sviluppano. Il primo è l’editore della triade Ungaretti, Quasimodo, Montale come della collana di fantascienza Urania e di Hemingway (proprio il suo Addio alle armi inaugura, nel 1965, gli Oscar Mondadori). Rizzoli avvia nel 1949 la meritoria e redditizia Bur (Biblioteca universale Rizzoli) ed è molto forte nelle riviste e nella letteratura d’intrattenimento, rosa e umoristica (clamorosi gli incassi, per libri e film, del Don Camillo creato da Guareschi). Le due case costruiscono negli anni un catalogo molto ampio con un’offerta piuttosto differenziata e numerose eccellenze, ma rimangono sempre nell’ambito di un’editoria che tende a evitare avventure e sperimentazioni.

Giornalisti e fotografi nell’archivio fotografico della Mondadori, Milano, 1961. (Angelo Cozzi, Mondadori Portfolio)

Insomma, Arnoldo Mondadori e Angelo Rizzoli, con qualche forzatura per il secondo, rientrano nella figura dell‘“editore protagonista”. Questa storica espressione di Valentino Bompiani (già collaboratore di Mondadori e quindi fondatore e anima della Bompiani) non designa semplicemente il padrone e non rimane un vuoto encomio: in quegli anni numerose case mostravano, infatti, l’impronta dell’editore in molteplici fasi, se non in tutte, del loro operare.

E per citare solo un esempio notevole del contesto: Erich Linder, il più importante agente letterario italiano di quell’epoca, “incanalava” gli scrittori verso l’editore adatto, cioè rispettava e anzi contribuiva a riprodurre un sistema nel quale l’autore Bompiani non era l’autore Einaudi che non era l’autore Garzanti (Il padrone è anche il titolo di un romanzo del 1964 di Goffredo Parise, ispirato al suo rapporto di lavoro con Livio Garzanti, recentemente scomparso; Roberto Calasso, Adelphi, pubblica invece nel 2013 la raccolta L’impronta dell’editore che guarda con nostalgia ai grandi editori europei del novecento).

Il conte Bompiani, Giulio Einaudi figlio di un grande economista, e il rampollo di ricchissima famiglia Giangiacomo Feltrinelli erano protagonisti e intellettuali, al contrario di Arnoldo Mondadori e Angelo Rizzoli, self-made men molto diversi nelle origini e nelle opportunità di studio.

Mondadori acquisirà però presto il profilo di figura autorevole e affascinante (lo chiamavano l’incantabiss, incantatore di serpenti), mentre il cumenda Rizzoli manterrà sempre fama di gaffeur: alla fine di una discussione letteraria pare aver chiesto se Dostoevskij e Tolstoj fossero la stessa persona, e il suo autore Giulio Andreotti ne comincia l’elogio, in un volume commemorativo, con le significative parole: “Aveva studiato solo alla scuola della vita”.

Guardando alla storia sociale e culturale del nostro paese possiamo dire che la lunga attività di Arnoldo Mondadori e Angelo Rizzoli coincide con il faticoso percorso di quasi completa alfabetizzazione e con una crescita di lungo periodo nella lettura, di periodici e libri. È insomma una fase progressiva per il mercato editoriale e per lo sviluppo, anche economico, dell’Italia.

Arnoldo e Angelo, i due fondatori, muoiono a otto mesi di distanza nel 1970 e nel 1971; e la loro scomparsa per Ferretti annuncia il tramonto dell’editore protagonista o, meglio, il principio di una riorganizzazione dell’intero comparto editoriale.

Nella sua Storia troviamo considerazioni piuttosto vicine a quelle che si leggono in questi giorni sul “crescente processo di industrializzazione, ristrutturazione e concentrazione, e il sempre più esteso intervento del capitale extraeditoriale nell’editoria libraria”, e ci fanno capire come la proposta non vincolante di acquisto da parte di Mondadori (oggi controllata da Fininvest) per la divisione Libri di Rcs MediaGroup (il gruppo che ha assorbito Rizzoli) rientri di fatto in un processo cominciato più di quarant’anni fa.

La prima concentrazione libraria prende l’avvio, infatti, all’inizio degli anni settanta. Dopo una crisi finanziaria, Valentino Bompiani nel 1972 viene estromesso dalla direzione della sua casa editrice, e la Ifi-Fiat acquista la sua casa (Bompiani) e anche Fabbri, Sonzogno e altri marchi in quella che è la prima di una lunga serie di operazioni di “consolidamento”.

Nel contesto di quegli anni, marcati anche dalla morte di Feltrinelli e dalle difficoltà economiche di Einaudi, Adelphi costituisce un caso a sé: il suo crescente successo commerciale è ottenuto attraverso la creazione di un “marchio” assai connotato, e uno dei suoi creatori, Roberto Calasso, viene a rappresentare il massimo valore possibile dell’editore protagonista: scrive libri, progetta le collane, sceglie gli autori, decide la veste grafica e le singole immagini in copertina, compone i risvolti e fa molte altre cose ancora, lasciando profonda la sua impronta (va ricordato che Ifi-Fiat possedeva anche una quota di Adelphi, oggi parte di Rcs).

Qui possiamo, dal punto di vista strettamente economico, avanzare una prima considerazione: le concentrazioni non sono interessate per principio a uniformare l’offerta. Se il mercato premia il “marchio” Adelphi come – perdoni Calasso il concetto e l’espressione – luxury brand, chi ha Adelphi nel proprio gruppo farà bene, per puro calcolo commerciale, a lasciarle ampia autonomia. Come del resto è accaduto, per il gruppo Mondadori, con Einaudi.

Dagli anni settanta a oggi

Gli eredi Rizzoli tradiscono presto gli insegnamenti e i conti in ordine del fondatore Angelo. Il figlio Andrea acquista nel 1974 dalla famiglia Crespi, da Angelo Moratti e da Gianni Agnelli per una cifra altissima l’Editoriale Corriere della Sera, con il principale quotidiano italiano e diversi periodici, e l’azienda assume il nome di Rcs Rizzoli-Corriere della Sera.

Angelo Rizzoli (al centro con la barba), all’inaugurazione della mostra per il centenario del Corriere della Sera, Milano, il 2 marzo 1976. (Edo Grem/Rcs/Contrasto)

Da quell’operazione segue una complessa serie di vicende finanziarie e poi giudiziarie, nelle quali il figlio di Andrea, Angelo (”Angelone”), presidente del gruppo dal 1978, incrocia la P2 di Licio Gelli, il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e lo Ior di Marcinkus. Angelo e l’amministratore delegato Tassan Din finiscono in carcere per bancarotta fraudolenta nel 1983. La proprietà passa quindi sotto il controllo di Gemina, controllata dagli Agnelli, nel 1984. Gemina nel 1997 costituisce la HdP che nel 2003 muta nome in Rcs MediaGroup.

Oggi Rcs MediaGroup oltre a quotidiani (Corriere della Sera, Gazzetta dello Sport, lo spagnolo El Mundo), periodici (Oggi, Amica), radio (Radio 105, Radio Montecarlo), tv sul digitale terrestre e sul web, agenzie di pubblicità, servizi di distribuzione e altre attività, ha pure una divisione libri che detiene circa l’11,7 per cento del mercato trade (secondo gruppo italiano, dietro Mondadori). Al presente ne fanno parte i marchi Rizzoli, Adelphi, Archinto, Bompiani, Fabbri, Marsilio, Sonzogno e la spagnola La Esfera de los Libros; inoltre il marchio Rizzoli ha diversi “sottomarchi” come Rizzoli Lizard per i fumetti e la storica Bur.

In Rcs MediaGroup oggi le quote maggiori sono di Fiat spa (16,734 per cento), Mediobanca spa (9,930 per cento) e Diego Della Valle (7,325 per cento), che nel 2012 è però uscito dal “patto di sindacato” dei maggiori azionisti. Rcs Media Group sta affrontando infatti anni molto difficili e turbolenti: sono stati ceduti diversi beni, come le edizioni Flammarion, acquistate in un periodo di espansione internazionale che portò con sé anche disastrose operazioni in Spagna, e gli immobili a Milano di via San Marco e via Solferino (il gioiello di famiglia: la sede storica del Corriere della Sera) venduti per 120 milioni.

L’attuale amministratore delegato, Pietro Scott Jovane, non raccoglie certo un unanime consenso; e Umberto Cairo, entrato nel 2013 in Rcs con il 3 per cento del capitale, ha commentato negativamente con la Repubblica l’operazione Mondadori-Rizzoli e più largamente tutta la gestione Jovane, poiché a suo avviso si è “continuato a bruciare cassa e le dismissioni sono servite a coprire le perdite in una sorta di avvitamento di cui non si conosce il punto di caduta”.

Cairo cita come caso esemplare gli immobili milanesi venduti in “un momento sfavorevole di mercato, dunque incassando prezzi non all’altezza, per andare a pagare affitti alti che superano di gran lunga gli oneri finanziari risparmiati. Se abbatto i debiti di 120 e spendo circa 6 milioni in meno di interessi ma poi vado a pagare 9 milioni di affitti non ho certo fatto un grande affare”.

Il gruppo chiude così i conti del 2014 con una perdita di circa cento milioni e un indebitamento finanziario intorno al mezzo miliardo. Il giudizio degli analisti è che per Rcs MediaGroup siano ormai percorribili due sole strade: un robusto aumento di capitale o ulteriori cessioni di quelli che con termini assolutamente eloquenti si chiamano “beni non strategici”, asset non core. La divisione Libri, il secondo gruppo nell’editoria libraria italiana, è considerata come parte della categoria e potrebbe garantire, con la vendita a Mondadori, 120-150 milioni di euro.

Ma vediamo, molto in breve, le vicende della Mondadori. Alla presidenza, dopo Arnoldo, succedono il figlio Giorgio e quindi Mario Formenton. Tra il 1989 e il 1991 Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi combattono per il controllo del gruppo. Questa “guerra di Segrate”, così chiamata dal comune dove si trova la sede Mondadori progettata da Oscar Niemeyer, si conclude con la conquista della maggioranza azionaria della Mondadori da parte di Fininvest, mentre l’Editoriale l’Espresso, l’Editoriale la Repubblica e i quotidiani Finegil rimangono al gruppo Cir di De Benedetti. Nel 1994 Mondadori acquista Einaudi, già entrata nel gruppo Elemond con Mondadori ed Electa nel 1989. Marina Berlusconi, figlia di Silvio, diventa presidente di Mondadori nel 2003.

Oggi com’è? Oggi Mondadori è controllata da Fininvest ed è un grande gruppo multimediale internazionale. Con il 27 per cento del mercato è il primo gruppo nell’editoria libraria trade (per semplificare, commerciale e non scolastica) e ha i marchi Mondadori, Einaudi, Electa, Piemme e Sperling & Kupfer. L’acquisto della divisione Libri di Rcs MediaGroup porterebbe verso un 38 per cento del mercato (valore ottenuto sommando semplicemente le quote più recenti dei due).

In Italia sono poi presenti altri tre gruppi di notevoli dimensioni: Feltrinelli, Giunti e il Gruppo Editoriale Mauri Spagnol (Gems, società controllata da Messaggerie). I loro interessi sono principalmente nel campo dell’editoria libraria, dove cercano di costruire una cosiddetta filiera integrata: ossia riunendo i ruoli di editore, distributore, libreria, “megastore multimediale” e di negozio sul web. La stessa Mondadori del resto ha una distribuzione propria e librerie “fisiche” e online.

Stefano Mauri, presidente di Gems, attualmente terzo gruppo editoriale del paese, non sarebbe molto felice di diventare il secondo alle condizioni che sembrano presentarsi. In diverse interviste di questo periodo ricorda sempre un dato rimarchevole su Mondadori e Rcs:

In nessun paese europeo esiste una concentrazione di queste dimensioni. La fusione tra Penguin e Random House, due giganti, ha creato sì un colosso, ma che per l’Inghilterra vale tutto insieme il 26 per cento, e cioè proprio la quota che Mondadori ha oggi in Italia.

Le tendenze alla concentrazione nell’editoria sono fortissime, e il segno più chiaro è appunto la nascita di Random House-Penguin, primo editore al mondo per il mercato trade, la cui proprietà è divisa tra due giganti multimediali: Pearson Plc basato in Inghilterra e la tedesca Bertelsmann. Operazioni simili hanno avuto inoltre luogo in paesi vicini a noi come Francia e Spagna.

Ma l’attuale quota di mercato di Mondadori è già la più alta in Europa e l’azienda frutto della fusione andrebbe verso il 40 per cento del mercato librario. Potrebbe avere inoltre un 25 per cento della scolastica e addirittura il 70 per cento dei tascabili (in virtù del catalogo molto ampio dei due gruppi editoriali).

In apertura di questo articolo abbiamo visto che la borsa ha festeggiato la possibile acquisizione. E naturalmente qualcuno immagina una ulteriore fase di “consolidamento” a opera di gruppi internazionali ancora più grandi. Su la Repubblica Simonetta Fiori si chiedeva se Silvio Berlusconi avesse davvero intenzione di guidare “questa nuova grande macchina dei libri” e citava quindi i nomi di potenziali acquirenti, come Bertelsmann (proprietaria del 53 per cento di Random House-Penguin) e Murdoch (”se nel pacchetto fosse presente anche un pezzo di Mediaset”).

La recente offerta pubblica di acquisto e scambio della società EI Towers di Mediaset, gruppo Fininvest, per RaiWay e le sue torri di trasmissione ha inoltre ulteriormente arricchito il quadro, alzando ancora la tensione e alimentando ulteriori ipotesi più o meno fantasiose.

Restando ai fatti, Giovanni De Mauro su Internazionale ha scritto:

Fusioni e acquisizioni non sono una novità in campo editoriale, in Francia, in Spagna e nel mondo anglosassone ce ne sono molti esempi. Ma un conto è quando si alleano piccoli o medi editori, un altro se a fondersi sono grandi società: di solito si tratta di operazioni che servono più a soddisfare gli appetiti dei manager che a trovare un modo per resistere alla crisi o all’avanzata di colossi stranieri, e alla fine hanno come unico obiettivo tagliare posti di lavoro e schiacciare i concorrenti più piccoli. Quei milioni di euro che la Mondadori è pronta a spendere per comprare la Rcs Libri forse potrebbero essere investiti diversamente, e meglio. Per recuperare lettori, rafforzare il sistema distributivo, migliorare la produzione editoriale.

Nel tiepido disinteresse dell’informazione il settore della distribuzione, cruciale nella filiera libraria, ha visto recentemente il matrimonio tra Messaggerie e Feltrinelli Pde, i due maggiori operatori nella distribuzione per conto di editori terzi. L’autorità garante della concorrenza e del mercato, la stessa che andrà a giudicare in caso di vendita l’operazione sicuramente molto diversa di Mondadori-Rizzoli, ha approvato questa joint-venture che andrà a prendere il 55-60 per cento del mercato, “subordinandola a misure idonee a sterilizzarne gli effetti anticoncorrenziali nei riguardi degli editori medio-piccoli”.

Ma prima di ampliare ulteriormente il quadro e chiarire anche di che tipo di prodotto stiamo parlando (i libri, chi li legge e chi li produce), andrà forse precisato che in tutti i paesi e soprattutto in Italia si è ancora ben lontani da un predominio del libro digitale capace di “scavalcare” la distribuzione tradizionale (in generale i beni digitali, compresi gli ebook, hanno un “funzionamento economico” profondamente diverso rispetto ai beni materiali).

Lettori, libri ed editori in Italia

L’ultimo rapporto Istat su Produzione e lettura di libri informa che nel 2014 i lettori sono diminuiti di 800mila unità rispetto all’anno precedente, confermando la tendenza negativa avviata nel 2010. Solo il 41,4 per cento della popolazione di almeno 6 anni dichiara di aver letto almeno un libro per motivi non scolastici o professionali nell’arco dei 12 mesi precedenti (in questa sezione con lettore intenderemo chi soddisfa la condizione appena citata, e similmente per leggere).

Dunque, su 57,4 milioni di italiani, 33,6 milioni e mezzo non leggono. E i 24 milioni di lettori sono ripartiti, per numero di titoli letti, in sottoclassi così composte: 10,7 milioni leggono tra uno e tre libri all’anno (lettori deboli), 6 milioni tra quattro e sei libri, 3,6 milioni tra sette e undici libri, e infine 3,4 milioni leggono almeno dodici libri all’anno (lettori forti). I lettori tra quattro e undici titoli sono chiamati lettori medi.

Chiaramente tali divisioni sono convenzionali sia nei nomi sia nei criteri, e diversi osservatori giudicano questi ultimi inadeguati per quantità e qualità. Basta un titolo al trimestre per essere considerato un lettore medio e – per dire – un successone come Cinquanta sfumature, con i suoi tre libri sciolti, conta il triplo di Pastorale americana. D’altro canto qualsiasi soglia è convenzionale e fare un discorso sulla qualità delle letture porta subito mille altre questioni (a cominciare da quella di chi decide i “punteggi” e in che modo).

I lettori forti delle rilevazioni Istat sono un’assoluta minoranza: solo un italiano su diciassette (il 6 per cento della popolazione di almeno sei anni) legge in media almeno un libro al mese.

Leggono molto più le donne che gli uomini, 48 per cento contro il 34,5 per cento, e “in assoluto, il pubblico più affezionato alla lettura è rappresentato dalle ragazze tra gli 11 e i 24 anni (oltre il 60 per cento ha letto almeno un libro)”.

L’istruzione incide profondamente sulla propensione alla lettura: rispetto ai generici quattro lettori su dieci, leggono almeno un libro all’anno un diplomato su due, e tre laureati su quattro. Circa il 25 per cento dei laureati non legge e analizzando i dati nel lungo periodo si scopre che i laureati di più di 45 anni “leggono in proporzione di più rispetto alle persone più giovani con equivalente livello d’istruzione”.

Si confermano ancora una volta le differenze territoriali, legate alla nostra storia: al nord legge il 48,5 per cento della popolazione, “nel sud e nelle isole, la quota di lettori scende, rispettivamente, al 29,4 per cento e al 31,1 per cento”. I non-lettori, coloro che non leggono neppure un libro all’anno, sono così la maggioranza “in ben 14 regioni su 20; il primato negativo nella graduatoria regionale spetta alla Sicilia (71,8 per cento) e alla Puglia (70,8 per cento)”.

In questo quadro poco incoraggiante per la lettura l’Istat sottolinea come i lettori forti resistano. Infatti “il calo della lettura rispetto all’anno precedente sembra da attribuire soprattutto all’ulteriore diminuzione della categoria dei lettori deboli (-6,8 per cento rispetto al 2013), i quali già avevano un rapporto molto fragile ed estemporaneo con i libri, mentre chi aveva una maggiore familiarità con la lettura ha dimostrato una sostanziale ‘tenuta’ nelle proprie abitudini”.

I tre milioni e mezzo di lettori forti sono anche la base sulla quale poggia il sistema editoriale e se questa tenuta è un dato assolutamente positivo per il mercato, almeno nel breve periodo, la perdita dei lettori deboli e l’allargarsi della non-lettura è, secondo la grande maggioranza dei commentatori, un dato fallimentare per l’Italia, per lo sviluppo economico, sociale e perfino democratico del nostro paese.

Si immagini ora di regalare ai 3,4 milioni di lettori forti tempo e denaro per coltivare ancora di più la passione della lettura con il risultato di un raddoppio del numero di libri acquistati. Quest’intervento sarebbe una manna dal cielo per il mercato editoriale, ma cosa cambierebbe per gli altri 16 italiani su 17?

Quando si giudicano i dati sulla lettura e sulle vendite di libri vanno tenuti presenti anche questi aspetti, soprattutto da parte di chi fa promozione alla lettura. Percorrere solo la strada più semplice, cioè adoperarsi per spingere i lettori forti all’acquisto di qualche libro in più, non è sufficiente.

L’Aie, Associazione italiana editori, a fine gennaio ha emesso un comunicato moderatamente ottimista sul mercato del libro nell’anno precedente, dal titolo “Resta stabile nel 2014 la spesa degli italiani per leggere”. Oltre la cifra totale, sepolto nel testo c’è però un dato non proprio trascurabile: “Tra il 2010 e il 2014 si sono persi qualcosa come 2,6 milioni di lettori (il 10 per cento)”. E in gran parte si tratta di lettori deboli.

Ora l’Aie decide comunque di correre ai ripari, e impegnarsi in #ioleggoperché, una campagna promozionale con l’obiettivo “di stimolare chi legge poco o chi non legge”. La campagna si propone come un “evento” collettivo, diffuso e di lungo periodo. Centrale il ruolo dei “messaggeri” che riceveranno gratuitamente copie di 24 opere e le diffonderanno “a scuola, all’università, al lavoro, sui treni locali, nelle biblioteche, nelle librerie” e in numerose “iniziative territoriali”.

Le 24 opere sono 23 romanzi di autori contemporanei, italiani e stranieri, editi da diversi marchi editoriali (evidente è la volontà di una larga rappresentanza, si va dal piccolo Gaffi a Mondadori). Il solo titolo non romanzesco è Come un romanzo, famoso saggio sulla lettura di Daniel Pennac, dove l’eccezione conferma letteralmente la regola. Sulla qualità di questi titoli ci sono state numerose polemiche, ma qui preferiamo notare come l’invito alla lettura si appiattisca sul romanzo contemporaneo.

Si diffida non solo di un Boccaccio e un Dickens ma anche di un Simenon e una Munro. E si diffida ancora di più di qualsiasi scritto che non sia narrativa. Proprio uno dei maggiori editori di saggistica italiani, Giuseppe Laterza, ha criticato gli stereotipi che con tutta probabilità hanno motivato la scelta dell’Aie, a cominciare da quella “facilità del romanzo” che sola saprebbe conquistare alla lettura. Mentre per un non lettore gli intrighi di Sveva Casati Modignani possono essere più lontani e meno attraenti di un saggio su come invecchiare bene.

Andrà pure velocemente chiarito un equivoco molto frequente: i “consumi culturali” non stanno semplicemente in concorrenza tra loro. Come ha spiegato più volte Giovanni Solimine, presidente del Forum del Libro:

Molti dati confermano un effetto di traino reciproco tra le diverse pratiche culturali, per cui si può dire che la vera differenza non è tra chi legge e chi va al cinema, o tra chi va a teatro e chi si connette a internet, ma tra chi fa molte cose e chi ne fa poche. […] La vera contrazione, dunque, è tra dinamismo e staticità, tra vivacità e passività, tra una vita ricca e una vita povera.

Si può non leggere libri e “avere una vita ricca”, inoltre gli stessi lettori forti spesso ammettono di leggere un libro in meno e di guardare una puntata di Breaking bad o di giocare un’ora a Minecraft in più rispetto al passato, perché la “concorrenza” per il nostro tempo e i nostri occhi esiste. Ma parlare di epoca post-libro, di un mondo dove i libri semplicemente non servono più, è – oltre che una balla – un formidabile costrutto ideologico

Se ci siamo fatti un’idea di chi sono i lettori in Italia, facciamocene una anche su chi sono gli editori. L’Istat censisce anche loro. Definisce attivi gli editori che hanno pubblicato almeno un libro nell’anno; grandi quelli che stampano almeno 50 libri all’anno, medi quelli che ne stampano tra 11 e 50, e piccoli quelli che ne stampano tra uno e dieci. Va segnalato anche qui il carattere convenzionale della classificazione e, per fare un solo esempio, si potrebbe misurare la “grandezza” di un editore non dal numero di titoli ma dal numero di copie stampate.

Nel 2013 in Italia sono attivi più di 1.650 editori, con questa composizione arrotondata: 200 grandi, 500 medi e mille piccoli. Sono stati stampati quasi 62mila titoli unici per un totale di poco più di 180 milioni di copie. I grandi editori rappresentano il 12,8 per cento del totale degli editori, ma stampano più di tre quarti (76,2 per cento) dei libri proposti sul mercato e quasi il 90 per cento delle copie (i medi il 7,7 per cento e i piccoli il 2,6 per cento).

Un libro di un piccolo, di un medio e di un grande editore ha in media una tiratura, rispettivamente, di 1.200, 1.300, 3.500 copie circa. Quasi due titoli su tre, ovvero quasi 40mila dei 62mila proposti nel 2013 sul mercato, sono novità (”prima edizione”).

Una minaccia per la libertà d’espressione?

Un gruppo di autori Bompiani, marchio Rcs, che grazie alla sua direttrice editoriale Elisabetta Sgarbi ancora oggi mantiene una forte identità, ha promosso un appello contro l’acquisto di Rcs Libri da parte di Mondadori. Umberto Eco, il primo firmatario, e gli altri aderenti scrivono:

Questa fusione darebbe vita a un colosso editoriale che non avrebbe pari in tutta Europa perché dominerebbe il mercato del libro in Italia per il 40 per cento. Un colosso del genere avrebbe enorme potere contrattuale nei confronti degli autori, dominerebbe le librerie, ucciderebbe a poco a poco le piccole case editrici e (risultato marginale ma non del tutto trascurabile) renderebbe ridicolmente prevedibili quelle competizioni che si chiamano premi letterari. Non è un caso che condividano la nostra preoccupazione autori di altre case: questo paventato evento rappresenterebbe una minaccia anche per loro e, a lungo andare, per la libertà di espressione. Non ci resta che confidare nell’Antitrust.

Si nota facilmente come l’appello sia vicino alle posizioni, espresse prima e dopo la sua stesura, dal ministro Franceschini, tra l’altro autore Bompiani e ovviamente tenuto dal ruolo istituzionale a una grande misura nel manifestare le sue preoccupazioni.

Se quindi ricordiamo che già oggi Mondadori è intorno al 27 per cento del mercato, possiamo porci alcune questioni tra loro collegate: il processo di concentrazione in atto da decenni non è già “una minaccia per la libertà d’espressione”? E la nuova concentrazione porterebbe a un nuovo estremo o, se la risposta alla prima domanda è negativa, farebbe nascere tale minaccia?

Anche il più informato oppositore di Silvio Berlusconi faticherà invano a dimostrare che il gruppo Mondadori impedisce a Einaudi di fare “libri scomodi”, mentre un sostenitore di Berlusconi citerà subito il catalogo della stessa Mondadori con i libri di Massimo D’Alema pubblicati tra il 1995 e il 2002 (come curiosità ricordiamo che Matteo Renzi ha pubblicato con Rizzoli nel 2011 e nel 2013, per poi passare a Mondadori nel 2013).

Quasi tutti i commentatori hanno sottolineato in questi giorni la diversità dell’offerta nei grandi gruppi e pure all’interno dei marchi principali: Mondadori ha Calvino, Hemingway, Fabio Volo e Dan Brown; Rizzoli ha l’economista Piketty, il giornalista televisivo di successo, il filosofo Severino e l’ennesimo romanzo rosa-erotico.

Inoltre si scopre spesso una differenza maggiore tra un autore Marsilio e uno Rizzoli, stesso gruppo, che tra uno Mondadori e uno Rizzoli. E.L. James, Cinquanta sfumature, è in Mondadori, mentre John Green, Colpa delle stelle, pubblica con Rizzoli, e potrebbe benissimo essere il contrario, appunto perché le due case principali sono generaliste e mirano ai medesimi grossi nomi.

La distanza tra marchi all’interno di un gruppo continua a essere notevole in numerosi casi: Sperling & Kupfler non si confonde con Einaudi pur nell’appartenenza a Mondadori, e in Rcs Adelphi, Marsilio e Bompiani hanno una chiara personalità editoriale. In una certa misura i marchi funzionano ancora, e proprio Adelphi mostra in abbondanza come l’inserimento nel suo catalogo di autori già pubblicati da altri editori (Mondadori e Rizzoli compresi) li “trasvaluti”, ne segni una nuova fortuna di pubblico e critica.

Stefano Bartezzaghi scriveva sulla Repubblica che in “Mondazzoli” i marchi storici Bompiani ed Einaudi sarebbero “impensabilmente apparentati tra loro” ma, fuor da ogni giudizio sull’operazione, è difficile comprendere come ciò possa essere impensabile, dopo più di un quarto di secolo di Mondadori ed Einaudi insieme e con Bompiani e Adelphi già in uno stesso gruppo. D’altra parte un lettore debole, nel senso dell’Istat, molto probabilmente non sa che Piemme non è un editore indipendente e ci sono numerosi lettori forti che ignorano l’appartenenza di Marsilio e Adelphi a Rcs MediaGroup.

Ecco che, forse, più che su una censura diretta o su un’omologazione organizzata dall’alto si potrebbe ragionare sull‘“autocensura” o, meglio, sulla spinta ad abbassare la qualità e l’originalità delle proposte per offrire al mercato ciò che vuole (espressione chiarissima solo all’apparenza).

Einaudi continua a pubblicare numerose eccellenze ma non sono ormai rari i titoli davvero evanescenti nel suo catalogo; e osservando dall’esterno pare che, proprio per non dare alcun pretesto economico a ingerenze dall’esterno, decida da sola libri inconciliabili con la sua tradizione di qualità. Lo stesso accade ad Adelphi, comunque più sorvegliata in quelle che il gergo editoriale nomina con pudore aperture al mercato. E, naturalmente, ad autocensura quel gergo preferisce termini come realismo e senso di responsabilità.

Oggi diversi osservatori, impegnati in vari ruoli nell’editoria o lettori forti che s’interessano anche di questioni editoriali, non valutano come decisivi gli effetti sul sistema della eventuale acquisizione di Rcs da parte di Mondadori, perché il mercato è già un oligopolio e all’interno di questo c’è già un gruppo fortemente dominante, Mondadori, che è quasi due volte e mezzo Rcs Libri per quota di mercato. Rcs Libri con il suo 11,7 per cento sta infatti nella categoria degli altri tre “piccoli grandi”: Gems, Feltrinelli e Giunti. Si ritiene, quindi, che tra un gruppo al 27 per cento e quattro gruppi intorno al 10 per cento e un gruppo al 38-39 per cento e tre gruppi intorno al 10 per cento non ci sia un salto qualitativo.

Gems, Feltrinelli e Giunti non avrebbero certo vita facile con il nuovo assetto, su questo c’è un consenso praticamente universale. Ma la piccola-media editoria indipendente, una caratteristica italiana per quantità e qualità, non potrebbe perfino ritagliarsi uno spazio leggermente più largo?

Questa editoria produce un basso fatturato ma è molto attiva e ha un’indubbia importanza culturale (al netto di esercizi poco gloriosi come le case editrici a pagamento). Anzi Elena Ferrante, scrittrice che pubblica per l’indipendente e/o ed è diventata un caso letterario mondiale, da alcune settimane sta al centro delle cronache per la sua candidatura al premio Strega. Ferrante potrebbe non solo spezzare il duopolio Mondadori-Rcs che dura dal 2002, ma perfino interrompere il rito pluridecennale della vittoria consegnata a grandi editori (”renderebbe ridicolmente prevedibili quelle competizioni che si chiamano premi letterari”, si leggeva nell’appello sopra citato).

Federico Novaro in un provocatorio intervento sull’acquisizione-fusione Mondadori-Rizzoli prova quindi a sparigliare, immaginando proprio due sistemi del libro, uno grande e uno piccolo-indipendente. Invita cioè a rinunciare all’idea che

la piccolissima casa editrice che pubblica sei titoli all’anno raffinatissimi e in cento copie e la gigantesca casa editrice che pubblica libri-gadget in centinaia di migliaia di copie facciano, in fondo, lo stesso mestiere.

Così siamo legati all’idea che la libreria indipendente, di quartiere o di paese, con un forte legame col suo bacino d’utenza, che tesse rapporti quotidianamente con i propri clienti e che quotidianamente cura il mercato al quale si rivolge, faccia lo stesso mestiere di un megastore nel centro città tutto orientato a intercettare i flussi del passeggio facendo il più possibile inciampare un pubblico distratto nella pletora di merce varia che raccoglie entro i suoi muri.

Si delineano infatti non solo due tipi di editoria ma due mondi della lettura separati.

Da una parte avremmo un mondo della merce (merce culturale talvolta ottima e spesso scadente), dominato dalla “brutale logica del mercato” e con l’ombra lunga di Amazon a coprire ogni Mondadori o “Mondazzoli”; dall’altra un consumatore responsabile e un circuito virtuoso che premia il lavoro amorevole degli indipendenti.

Novaro estremizza consapevolmente, sa infatti benissimo che i mondi sono sempre collegati e, per esempio, una delle caratteristiche principali della piccola editoria è di “preparare” gli autori per il salto con Einaudi, Mondadori, Rizzoli. L’eccezionalità editoriale di Ferrante non sta infatti nei primi libri con e/o ma nella lunga fedeltà a quella casa, nonostante il successo sempre più grande.

Ma se anche fosse possibile questa divisione e pure se l’editoria indipendente, media e piccola, producesse un numero ancora più alto di libri ancora più belli saremmo, a mio giudizio, in una situazione pessima.

Avremmo infatti una minuscola quota di lettori fortissimi e squisitissimi, e la “lettura vera” ridotta a esclusivo piacere per un 1 per cento o poco più definito non dal reddito ma per “cultura”. E sarebbe una sconfitta per tutti, in primo luogo per quell’1 per cento o poco più.

Le cose andranno probabilmente in modo diverso nel mondo reale, complesso e compromesso, dove il lettore più raffinato compra anche su Amazon e nel megastore Mondadori, e il piccolo editore produce troppi libri orribili, e la piccola libreria indipendente mette il proprio catalogo di testi rari su AbeBooks di Amazon.

La mia opinione è che la nuova azienda editrice nascerà (antitrust volendo) e i manager saranno meno ignoranti della facile caricatura che li vuole incapaci di riconoscere il valore, culturale ed economico, dei marchi editoriali.

E quindi, perfino in quella nicchia dove la piccola-media editoria indipendente e di qualità trova lettori, si sentirà il peso di Mondadori-Rizzoli, della sua rete integrata che saprà certo valorizzare con enorme forza – dalla promozione dei libri in preparazione alla disposizione dei volumi in libreria – pure i suoi marchi di qualità.

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