02 marzo 2015 09:49

L’uomo dice: “Permettetemi di parlare in amiyye”, l’arabo dialettale. Tutte le persone presenti nella sala annuiscono. L’oratore è Abed al Majid Atta al Amarneh, muftì di Be­tlemme. È stato invitato a parlare a un incontro pubblico a Ramallah sul divieto di uscire dalla Cisgiordania imposto dagli israeliani.

“In amiyye posso esprimere meglio il mio dolore”, dice prima di raccontare che non esce dal paese da 31 anni. Non ha potuto studiare all’estero, visitare la famiglia in Giordania o accompagnare i genitori nel pellegrinaggio alla Mecca. Racconta che da anni l’esercito cerca un pretesto per arrestarlo, invano. “Chiedo scusa”, dice rivolgendosi alla platea, tra cui ci sono molti ex detenuti. “Non ho fatto niente per combattere l’occupazione, per questo non hanno niente contro di me”. L’incontro è stato organizzato dall’ong Hurriyat, che denuncia il divieto di espatrio usato da Israele contro chiunque ritenga opportuno. La limitazione della libertà di movimento da parte di Israele è stata sempre sottovalutata dai palestinesi rispetto ad altre forme di repressione.

Negli anni novanta, quando cercavo di sensibilizzare i miei amici di Gaza sulla questione, uno di loro mi disse: “Quando rubano la terra e uccidono i nostri giovani, lamentarsi del divieto di espatrio è un lusso”. Oggi Gaza è la più grande prigione del mondo e, anche se Israele non ha mai reso pubblici i dati, i palestinesi che non possono uscire dalla Cisgiordania sono centinaia di migliaia.

Traduzione di Andrea Sparacino

Questo articolo è stato pubblicato il 27 febbraio 2015 a pagina 27 di Internazionale, con il titolo “Prigione a cielo aperto”. Compra questo numero | Abbonati

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