31 agosto 2015 11:49

Mentre leggevo un libro dello scrittore siriano Hanna Mina, ho incontrato una parola che ero sicura di conoscere: kaaba. Molto simile all’ebraico keev (un carattere ebraico indica la b e la v con un puntino al centro per distinguerle, mentre la v non esiste in arabo). Keev significa dolore. Da due mesi prendo lezioni private per migliorare il mio arabo e l’insegnante, un israeliano di sessant’anni, mi ha corretta: kaaba significa depressione, non dolore. Concetti simili, ma diversi. Unendo l’ebraico e l’arabo, la depressione diventa qualcosa che si può toccare, un peso insostenibile a livello fisico e mentale.

“Ho bisogno di vedere uno psicologo”, mi ha detto la mia amica N. La sua kaaba è insopportabile. Anche lei è una cittadina israeliana. Quarant’anni fa ha sposato un parente nella Striscia di Gaza ed è andata a vivere con lui. A differenza della maggioranza degli abitanti di Gaza, N può entrare e uscire dalla Striscia. Ma ora vive in un appartamento in affitto, perché la sua casa è stata distrutta l’anno scorso.

“Conosco qualcuno che ti può aiutare”, le ho risposto. Alcune settimane fa ho incontrato un gruppo di abitanti di Gaza che sono rimasti feriti durante la guerra e sono stati curati a Gerusalemme. Mi hanno presentato una psicologa che si occupa di loro. Anche lei è cittadina israeliana, ed è anche nipote dello scrittore palestinese Emile Habibi. Lui era un comunista che aveva conosciuto i miei genitori, e sapeva molte cose sulla depressione.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è stata pubblicata il 28 agosto 2015 a pagina 31 di Internazionale, con il titolo “La parola depressione”. Compra questo numero | Abbonati

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