30 agosto 2016 18:25

Il pomeriggio di lunedì 22 agosto la piccola strada che collega le due principali arterie di Betlemme era intasata in direzione ovest. Le macchine erano ferme. Qualcuno, compreso l’autista di un autobus, cercava di fare inversione. Alcuni bambini, apparentemente di cinque o sei anni, radunati intorno a un cassonetto dell’immondizia che avevano piazzato al centro della strada, facevano rotolare dei vecchi copertoni.

Pensiero immediato: volevano dare fuoco alle gomme. Pensiero successivo: venivano dal più piccolo e povero campo profughi della Cisgiordania, il cui nome ufficiale è Beit Jibrin, in onore del villaggio in cui i profughi non possono tornare dal 1948. Ma il nome ufficioso è Azza, come si chiama la famiglia allargata che ci vive. L’ingresso del campo si trova esattamente nel punto in cui il cassonetto bloccava la strada.

Da lì era impossibile vedere il minaccioso muro di separazione, poco lontano, con le torrette di guardia e i soldati israeliani. Questo significa che l’iniziativa non era rivolta contro le forze di occupazione. L’autista della macchina dietro la mia ha tirato fuori la testa dal finestrino mentre cercavo di fare inversione e mi ha detto: “È tutta colpa di Oslo”. Come se fossi stata io a firmare gli accordi.

Mente mi allontanavo ho visto che la polizia palestinese era già sul posto. Gli agenti cercavano di impedire l’ingresso di altre macchine nella strada bloccata, ma non osavano fermare i bambini arrabbiati e frustrati.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Amira Hass sarà al festival di Internazionale a Ferrara dal 30 settembre al 2 ottobre 2016.

Questa rubrica è stata pubblicata il 26 agosto 2016 a pagina 29 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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