19 dicembre 2016 19:20

Una lunga fila di luci rosse squarciava l’oscurità. Poteva significare soltanto una cosa: una lunga attesa per le automobili al checkpoint che separa Ramallah dai villaggi orientali. Sono trascorsi circa venti minuti prima che la mia auto fosse la terza davanti ai soldati: due figure scure vicino a una cabina e un’altra su una torretta fatta di blocchi di cemento. La prima macchina è partita e quella che mi precedeva è avanzata. La figura scura sulla torretta mi ha fatto un cenno con la mano. Significava che potevo avanzare. Ho percorso un metro o due e poi ho sentito le grida. Uno dei soldati vicino alla cabina ha armato il suo fucile e ha mirato alle ruote. Era pronto a sparare.

Ho tirato fuori la testa dal finestrino e ho urlato in ebraico: “Siete impazziti, perché mi puntate il fucile?”. Mi ha detto di spegnere il motore. L’ho fatto. Poi mi ha detto di avvicinarmi. Non ho capito se dovevo farlo in macchina o a piedi. Mi ha risposto: “In macchina”. Quando ci siamo trovati faccia a faccia il soldato, un ebreo etiope, mi ha chiesto un documento d’identità e ha cominciato a farmi la predica: “Non sa che questa è una zona di sicurezza? Non sa che di recente c’è stato un attacco?”. Gli ho risposto: “So che qui ci sono soldati e che uccidono persone ogni giorno”. “Non è vero”, ha detto il suo collega.

Mentre andavo via ho aggiunto: “L’unica cosa che so è che siete in un posto dove non dovreste stare”. Il soldato etiope ha risposto: “Su questo sono d’accordo con lei”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questa rubrica è stata pubblicata il 16 dicembre 2016 a pagina 26 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati

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