08 maggio 2017 18:19

Alle 15.45 del 2 maggio un giovane è stato visto correre incontro a una soldata a un checkpoint a sudest di Ramallah. Lì solo gli israeliani possono passare, mentre gli abitanti di Hizma, la cittadina dove c’è il checkpoint, non possono attraversarlo. Il 2 maggio è stato un giorno di grande tensione per le forze militari israeliane, visto che si festeggiava l’indipendenza di Israele. Ai palestinesi che vivono in Cisgiordania erano state imposte ulteriori limitazioni agli spostamenti.

Quando l’uomo si è avvicinato minacciosamente alla soldata, gli agenti dell’azienda privata che gestisce il checkpoint si sono messi in allerta. Hanno notato il coltello e hanno sparato all’uomo. Alle 16.19 un portavoce della polizia ha dichiarato che era stato sventato un attacco terroristico con arma da taglio e che il terrorista era stato “neutralizzato” e ferito gravemente. Come succede sempre in questi casi, il portavoce non ha precisato a che distanza dalla soldata si trovasse l’uomo, che è morto poco dopo. Otto minuti più tardi è arrivata una rettifica: “Il giovane non era palestinese”. Era ebreo. Nei comunicati successivi è stato indicato come una “persona” o un “giovane”. Non era più un “terrorista”.

Il giovane ebreo, com’è stato scritto in seguito, aveva deciso di suicidarsi. La logica è chiara: dopo aver visto per due anni militari israeliani che non esitavano a sparare a palestinesi armati di coltello, l’uomo sapeva che era un modo sicuro per morire.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it