10 dicembre 2013 09:30

“Tutti noi cerchiamo costantemente di ricavare un senso dal mondo in cui viviamo e la sfida di riuscirci è tanto maggiore quanto più sono complesse le nostre esperienze. Sta in questa sfida la chiave della creatività”, scrive Nigel Barber su Psychology Today.

Barber prosegue spiegando che proprio nella molteplicità di prospettive acquisite attraverso esperienze diverse dalla norma sta, per esempio, il motivo per cui negli Stati Uniti gli immigrati sembrano avere sette volte più possibilità di eccellere in campi creativi di quante ne abbiano individui le cui famiglie risiedono in America da generazioni.

Lo stesso schema che unisce creatività e differenza si applica a chiunque abbia una “dimensione di alterità” che lo allontana dalle categorie sociali mainstream. Barber conclude che qualsiasi punto di diversità (etnica, culturale, di genere, di orientamento sessuale) sviluppa una potenzialità creativa.

Ha un effetto analogo anche qualsiasi accidente esterno o situazione complicata che l’individuo sperimenta: è noto – uno dei primi ad accorgersene è stato Dean Simonton – che le persone eminenti hanno avuto in percentuale molto superiore alla media infanzie difficili e, a volte, traumatiche.

La regola che dice “prospettive diverse = creatività maggiore” vale non solo per i singoli individui ma anche per i gruppi. Così, per esempio, è dimostrato che gruppi etnicamente eterogenei producono idee più efficaci e fattibili di quelle messe a punto da gruppi omogenei. E perfino gruppi messi insieme a caso trovano soluzioni migliori di gruppi omogenei di esperti che, proprio perché condividono una stessa formazione, la pensano tutti alla stessa maniera.

Insomma, se necessity is the mother of invention, potete star certi che diversity is the mother of creativity. S’intitola proprio così un lungo appello a importare la diversità in azienda, mettendo insieme persone diverse da reparti diversi, cambiando luoghi e processi e magari introducendo un po’ di diversità anche nella vita dei manager.

La regola vale anche per l’educazione: in Il codice dell’anima, il grande psicoanalista James Hillman scrive che, con i bambini, “ciò che conta è la passione, e la passione può avere un valore predittivo del talento e diventare una forza motivazionale più efficace di altri più consueti parametri non esiste un cibo giusto e un cibo sbagliato”, (per l’anima e la crescita), “basta che soddisfi l’appetito, e che l’appetito trovi un cibo che lo soddisfa”.

“Esistono però”, continua Hillman, “nella dieta capace di risvegliare l’immaginazione alcuni ingredienti indispensabili. Tra i molti requisiti preliminari, ne elencherei almeno tre: primo, che i genitori o altri adulti intimi abbiano una qualche fantasia sul loro bambino; secondo, che nell’orizzonte del bambino siano compresi tipi eccentrici e vecchie signore un po’ strambe; e, terzo, che si trattino con rispetto le attività ossessive”.

E certo: gestire la diversità è molto più complesso che gestire gruppi omogenei, sia a scuola, sia in azienda. Pensate solo alle quantità di equivoci che possono sorgere a causa di incomprensioni linguistiche, criteri di giudizio disallineati, priorità differenti, sensibilità e codici di cortesia non condivisi, preparazione e sfere di competenza eterogenee.

È necessaria una dose maggiore di curiosità, flessibilità e rispetto.

Se volete capire quanto siete avanti (o indietro) nella capacità di interagire tenendo conto delle differenze culturali, potete guardarvi la scala di Bennett, che comprende sei stadi: negazione della differenza, difesa, minimizzazione, accettazione, adattamento, integrazione.

Bennett indica anche i cinque passaggi necessari per arrivare all’integrazione: diventare consapevoli delle differenze, depolarizzare i pregiudizi negativi e riconoscere le somiglianze tra culture, afferrare l’importanza delle differenze interculturali, esplorarle e imparare a conoscerle, sviluppare empatia.

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