23 gennaio 2017 12:52

Un curioso articolo del Washington Post conta le volte in cui Donald Trump, twittando, usa la parola “loser” (perdente): ne registra 170 a fine settembre 2016.

Mentre scrivo, il Trump Twitter Archive segna “loser” come il primo degli insulti ricorrenti, con 234 occorrenze. Seguono “dumb” o “dummy” (scemo, idiota) con 222 occorrenze, “terrible” (terribile, orrendo) con 204 occorrenze, “stupid” (stupido) con 183 occorrenze e “weak” (debole, fiacco) con 156 occorrenze.

A meno che qualcuno degli assistenti non strappi il telefonino dalle mani di Trump, immagino che i numeri cresceranno. E che l’ordine in classifica subirà poche modifiche. D’altra parte, a ben vedere, le accoppiate debole/perdente e stupido/idiota delineano un paesaggio cognitivo che comprende criteri di giudizio forse un po’ rozzi, ma dotati di un’innegabile coerenza e dunque, probabilmente, persistenti.

Si tratta di criteri di giudizio caratteristici del pensiero dicotomico, quello che schematizza e semplifica dividendo il mondo in bianco e nero. O in amici e nemici. O, appunto, in perdenti e vincenti. È un pensiero sbrigativo e inadeguato a destreggiarsi nella complessità del presente. Ma è anche facile da comprendere, rassicurante e consolatorio. Specie per chi colloca sempre se stesso dalla parte buona.

Conseguenze paradossali
La cosa notevole è che, come rileva il New Yorker, nella sua cupa cerimonia inaugurale Trump descrive gli americani come vittime, e dice che la storia del paese è una storia di declino. Insomma, delinea un’intera nazione di perdenti che lui, come unico vincente, promette di “proteggere”. Cosa che relega gli americani – è ancora il New Yorker a notarlo – in un’ancor più profonda condizione di perdente passività. Questo, tra l’altro, potrebbe essere uno dei punti di debolezza della comunicazione presidenziale futura.

Psychology Today scrive che l’America ha l’ossessione di definire successo e felicità in termini di vincenti e perdenti. Si tratta di un atteggiamento che permea qualsiasi ambito, dallo sport alla politica agli affari, e procura più danni che vantaggi.

L’ossessione genera, infatti, alcune conseguenze paradossali: per esempio, una citatissima ricerca spiega che i vincitori olimpici di medaglie d’argento sono solitamente più insoddisfatti dei vincitori di medaglie di bronzo. Succede perché gli “argenti” si ritengono perdenti rispetto al primo classificato, mentre i “bronzi” sono comunque felici di essersi conquistati una medaglia.

Questa sindrome si riflette nella percezione del pubblico, e si estende anche agli sport amatoriali: le persone più infelici e frustrate si esaltano solo per i risultati eccellenti, e solo quelle più felici apprezzano qualsiasi buon risultato (vi sono venuti in mente gli innumerevoli casi italiani di genitori che fanno a botte sul campetto da calcio dei pargoli? Be’, anche a me).

Ed ecco quali sono le conseguenze del voler vincere a ogni costo, e non solo negli sport: perdita del piacere di mettersi alla prova, e del senso stesso della competizione. Propensione a vincere anche con l’inganno. Incremento dello stress. Aumento dei pregiudizi e dell’alienazione. Trasformazione di ogni sconfitta in un evento traumatico.

Dirlo al Partito democratico americano
L’alternativa al competere, ovviamente, non è rinunciare alla competizione (sarebbe un’altra forma di pensiero dicotomico), ma scegliere la cooperazione.

Tra l’altro: se mettiamo a confronto i due approcci, nella scuola, nel lavoro, nello sport e perfino nei rapporti tra gli stati, scopriamo che a vincere è l’approccio cooperativo: ce lo dicono, (a ricordarlo è ancora Psychology Today), oltre 122 ricerche indipendenti.

Forse, alla faccia di Trump, varrebbe la pena di rileggersi quello che scrive Alex Zanardi: un campione che di competizioni sa più di qualcosa. O bisognerebbe ricordare (ne ho parlato qui) la straordinaria storia di Derek Redmond, che mentre sta correndo i 400 metri piani alle Olimpiadi si strappa un muscolo e taglia il traguardo sorretto dal padre. Perde la gara ma vince la più intensa e commossa standing ovation della storia olimpica.

Già: i vincenti, se li consideriamo sotto il profilo narrativo, sono poca cosa. E spesso una positiva, consapevole ed energica reazione alla sconfitta risulta molto più interessante ed emozionante di una vittoria esibita, autocelebrata e non esente da controversie. Speriamo che qualcuno lo dica al Partito democratico americano.

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