28 luglio 2015 16:20
I Roots Magic. (Alessandro Carpentieri)

“Suona nella tradizione”, si usa dire in gergo jazzistico di chi aderisce maggiormente ad alcuni canoni del jazz del passato. Quali siano i confini della tradizione è un dato soggettivo e discutibile: “Nella tradizione di / noi tutti, in un dovunque simultaneo e senza fine / una fila / sempre in movimento / come l’immenso poeta di Chicago Amus Mor / come l’Art Ensemble / come la Venere di Milo di Miles Davis”, ha scritto Amiri Baraka (Nella tradizione, 1980).

Nella cultura afroamericana tradizione e tradizionale non vanno d’accordo. Nel jazz – e nella musica nera in generale – appartenere a una tradizione significa far parte di un continuum, riconoscere e omaggiare chi l’ha costruito, spingerlo in avanti rivedendolo, anche radicalmente. È l’improvvisazione stessa a consolidare questa interpretazione, una pratica che secondo lo scrittore e saggista Henry Louis Gates jr “‘non è altro’ che ripetizione e revisione”, forme espressive che sono alla base del cuore pulsante della musica afroamericana: il blues.

Hoodoo blues & Roots Magic è un disco che parte da queste premesse trovando il blues nella musica di Julius Hemphill, John Carter e Sun Ra, tra gli altri. Cogliendone la dimensione del racconto, del rito e della danza, rintracciando in un repertorio jazzistico la voce più tipica del blues, che si nutre di ambivalenze e ambiguità, in bilico tra lacerazione, saggezza e ironia. Una poetica o una ribellione dello spirito, così come la definiscono i componenti del gruppo, che racconta il passato di un popolo – Il popolo del blues.

Baraka ne ha scritto diffusamente nel saggio omonimo che rimane ancora oggi fondamentale per ricostruire una storia sociale della musica afroamericana e ha ribadito il concetto in altre occasioni: “Ecco perché siamo il blu(es) / proprio noi / ecco perché noi / siamo il / canto / autentico // Così oscuro & tragico / Così vecchio & / Magico // ecco perché siamo / il Blu(es) noi Stessi // In tribù di 12 / misure / come le strisce / della schiavitù / sulla / nostra bandiera / di pelle” (Funk lore, 1993). Autenticità rivendicata come atto fondativo dell’esistenza e al tempo stesso negata proprio in quel processo di continua revisione, dove il contributo trova valore nella diversità espressiva, nell’affermazione dell’individualità, assicurandone la proiezione nel futuro.

A questo la forma del blues si presta benissimo. All’origine la sua struttura musicale è semplice ma anche elastica quanto basta per adattarsi alle esigenze narrative del testo. È un terreno fertile per l’invenzione e la trasformazione e i quattro musicisti che formano Roots Magic (Alberto Popolla clarinetti, Errico DeFabritiis sax alto, Gianfranco Tedeschi contrabbasso, Fabrizio Spera batteria) lo hanno fatto proprio, filtrando la musica attraverso un prisma che proietta uno stesso brano avanti e indietro nel tempo: l’avanguardia contiene il blues ma anche viceversa, o “lo stesso che cambia” (ancora Baraka!), dove Charley Patton dialoga con l’Art Ensemble e Blind Willie Johnson con Albert Ayler. La versione originale di Dark was the night viaggia nello spazio dal 1977 all’interno di una delle sonde del programma Voyager, come tassello del ricco mosaico dell’espressione umana.

In attesa di un futuribile e poco probabile incontro tra il blues dell’extraterrestre e quello di Johnson, Roots Magic la riporta in un presente molto vivo in cui la tradizione del blues si rinnova nella contemporaneità.

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