28 settembre 2016 16:16

Dopo il suicidio dell’operaia Maria Baratto il 20 maggio 2014 un po’ di operai reclusi in un reparto confino (rompicoglioni sindacalizzati o persone con bassa produttività messi nei capannoni di Nola a non fare niente, lasciati a casa in attesa) impiccano Marchionne. Ma non è la simulazione di un omicidio, bensì di un suicidio. Il Marchionne impiccato si scusa con gli operai per averli emarginati, per averli spinti al suicidio.

E la grande Fiat si arrabbia. Mobilita i suoi avvocati. Un gigante contro cinque operai che hanno sfidato il mostro con un pupazzo. Ve l’immaginate gli avvocati della Fiat? Immaginate lo studio legale? Anche lì ci saranno precari che, appena usciti dall’università, cercano di guadagnarsi (forse gratis) un posto nel circuito borghese di quelli che vincono le cause. Precari contro altri precari.

E poi provate a immaginare questi cinque operai. Operai che litigano in casa con mogli e suocere, figli e padri. Che cercano di spiegare che il lavoro non è solo lo stipendio, ma anche la dignità. E per quella dignità lo perdono il lavoro. Ma lottano. Lottano e tornano a dormire in macchina, in mezzo alla strada. Chissà se Marchionne ci ha mai dormito in una delle sue macchine, quelle scatolette che produce attraverso mani che si rattrappiscono in mezzo mondo?

Ma loro lottano e non hanno un euro in tasca. Lottano fino allo stordimento che sta un passo dopo la fatica. Lottano perché non hanno altro, hanno perso tutto e in fondo alle loro tasche c’è solo la lotta.

“Il capitalismo cammina veloce”, mi dice Mimmo, uno di loro. “È lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e noi abbiamo buttato un sampietrino sopra un carro armato, perché Marchionne è un carro armato”, così mi dice al telefono.

“Questa è una battaglia che abbiamo vinto tutti. Noi siamo solo testimoni di questa vicenda, capito? Io penso che abbiamo difeso un pezzo della costituzione, questo articolo 21 sulla libertà di opinione”.

Perché la loro non è stata una battaglia per il lavoro, ma per la libertà di parola. Contro i mostri del capitalismo non è più possibile nemmeno arrabbiarsi, alzare la voce. La Fiat ci ha provato e i partiti (praticamente tutti) hanno fatto finta di niente, e si vede dall’attenzione distratta che i mezzi di informazione hanno avuto per questa vicenda. Ma cinque operai e un gruppetto di intellettuali incanutiti gli sono andati appresso a questa avanguardia, a questo futuro che prende in mano il passato per stringere forte nella mano il sampietrino da gettare contro il carro armato!

“Basta guardare la mia maglietta, siamo usurati da questa battaglia. Io vivo in macchina da cinque mesi. Siamo entrati nelle vostre case, nella tua, che ti devo dire Ascà?”, dice Mimmo. “I giudici hanno dato una sentenza giusta grazie alla presa di posizione di tutti noi e tutti voi. Quella causa poteva mettere in discussione la libertà di tutti. È stato smascherato un golpe che voleva fare la Fiat, questo te lo voglio dire e lo devi sottolineare. Noi potevamo essere buttati fuori con un po’ di risarcimento e invece ha vinto anche quell’articolo 18 che Renzi e Marchionne hanno voluto cancellare. Io da domani, dopo dieci anni di battaglie con cinque licenziamenti e cinque reintegri (con questo), io varco il cancello della fabbrica a testa alta e viso scoperto, con otto sequestri sulla macchina e una famiglia distrutta rasa al suolo per la mia precarietà per le lotte che sto facendo e per questo chiedo scusa alla mia famiglia. È stata una battaglia dura… un sampietrino sul carro armato!”.

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