04 settembre 2016 12:39

La morìa del 2016 che ci ha tolto Prince e David Bowie e diversi altri artisti solo apparentemente minori della musica pop, da Alan Vega dei Suicide a Gilli Smyth dei Gong, passando per Maurice White degli Earth Wind & Fire, ha accelerato un fenomeno che stava prendendo forma già da un paio di decenni. La musica pop, con la lentezza inesorabile di una zolla tettonica, aveva cominciato a spostarsi da quel territorio che, banalizzando, possiamo chiamare “costume e società” a una zona diversa del nostro orizzonte culturale, quella dei “classici”.

Quando muore un grande artista pop non si esita più a definirlo un classico, e l’attrazione feticistica per tutto quello che ha fatto tiene a galla una discografia che sopravvive quasi esclusivamente sulle ristampe e sta creando una nuova industria culturale della memoria. Quella che per cinquant’anni è stata la “cultura giovanile” ora si sta trasformando in un serbatoio infinito di materiale musealizzabile.

La fondazione, nel 1983, della Rock & Roll Hall of Fame – che è sia un’istituzione sia un museo – è stata un passo fondamentale nel processo di musealizzazione della musica pop. Fortemente voluta dal discografico di origine turca Ahmet Ertegün (che tra le altre cose è stato il fondatore della Atlantic e l’uomo che ha fatto firmare contratti a gente come Aretha Franklin, i Led Zeppelin e Crosby, Stills, Nash and Young) la Rock & Roll Hall of Fame si comporta per statuto esattamente come un museo di arte o di scienza e tecnica. Acquisisce, conserva, espone e comunica testimonianze materiali e immateriali (sul concetto di immaterialità torneremo presto) di un determinato momento storico culturale “a finalità di studio, educazione e diletto”.

Invecchiare bene
Ogni anno la Rock & Roll Hall of Fame ammette tra i cinque e i sette nuovi artisti. Una commissione formata da discografici, accademici, giornalisti e musicisti sceglie, in base a regole rigide, chi promuovere dal calderone di “costume e società” al piano più nobile del “Classico”. Con la C maiuscola. È quindi una specie di catena di montaggio che dal magma informe e meraviglioso della cultura pop – fatta anche di fan rissosi, promoter senza scrupoli, artisti storditi, freak dimenticati, collezionisti maniacali – tira fuori un “Classico”, un “Gigante del rock”, come strillavano le copertine di certi dischi in edicola. Dal caos emerge il busto immacolato di Beethoven che Schroeder dei Peanuts tiene sul suo pianofortino.

Nel 2016 sono stati ammessi nella Rock & Roll Hall of Fame nella categoria “Performers” i Cheap Trick, i Chicago, i Deep Purple, Steve Miller e il gruppo gangsta rap N.W.A. Madonna era stata ammessa nel 2008, due anni prima i Sex Pistols, che ovviamente rifiutarono di partecipare alla cerimonia, solo per portare due esempi di artisti che hanno reso, per ragioni diverse, le cose difficili a chi si occupava di soppesare la loro classicità.

Mentre la Rock & Roll Hall of Fame continuava a fabbricare Classici, la musica pop e i suoi protagonisti continuavano a invecchiare. E più una cultura invecchia, più si radica nel nostro immaginario collettivo e più ne percepiamo la rilevanza. Era ovvio quindi che la musica pop finisse per tracimare in altri ambiti artistici con modalità di produzione e di fruizione molto diverse e codificate da più anni.

La mostra “Paul Simon: words & music” alla Rock & Roll Hall of Fame, a Cleveland, il 29 ottobre 2014. (Patrick R. Murphy, Getty Images)

Il lavoro di Andy Warhol con i Velvet Underground è stato pionieristico in questo senso: un artista figurativo ossessionato con la produzione, la riproducibilità e il consumo inventa un gruppo rock che per forza di cose avrà un dna artistico ibrido. I Velvet Underground in quanto opera d’arte concettuale nascono già, in un certo senso, musealizzati. E si muovono in una dimensione diversa da quella di tanti altri musicisti di quell’epoca che pure bazzicavano più o meno gli stessi giri, da Bob Dylan a Jim Morrison.

Da Warhol in poi la musica pop e l’arte contemporanea hanno trovato sempre più spesso punti di contiguità. E sempre più spesso si sono aiutate a vicenda, anche e soprattutto a fini commerciali. Dal corpo di Grace Jones dipinto da Keith Haring alla spin art di Damien Hirst in collaborazione con il produttore musicale Swiss Beatz, dal film di Björk con il marito videoartista Matthew Barney alle interazioni più e meno riuscite tra Lady Gaga e Francesco Vezzoli, musica e arte contemporanea hanno imparato a percorrere pezzi di strada una sulle spalle dell’altra.

Le stanze delle meraviglie
Con un pubblico sempre più abituato a muoversi in questa zona grigia tra performance pop e arte contemporanea, è stato naturale che i musei si aprissero con maggior convinzione a esperienze legate alla musica. I concerti dei Kraftwerk al Moma di New York e alla Tate Modern di Londra sono stati paradigmatici in questo senso. La pionieristica band elettronica tedesca ha in qualche modo chiuso il cerchio estetico che aveva aperto nei primissimi anni settanta. Presentandosi sul palco di una grande istituzione, i Kraftwerk si sono consacrati come Gesamtkunstwerk, un’opera d’arte totale che finalmente raggiunge quell’unità tra musica prodotta dalle macchine, immagine retrofuturista e performance robotica. Tutto nell’atmosfera asettica di un prestigioso museo.

Chitarre, plettri, giubbotti e spartiti rischiano di sembrare solo paccottiglia. Anche perché, a ben vedere, lo sono

I musei e le istituzioni dell’arte contemporanea si sono anche aperti a mostre legate a tutta la produzione culturale parallela alla performance musicale vera e propria. Grafica, video, costumi e scenografia sono parte integrante del messaggio di una pop music che sempre di più si presenta come manufatto culturale complesso e multidisciplinare. Il Victoria & Albert museum di Londra, come museo dedicato espressamente alle arti minori, ha accolto nella sua collezione permanente diversi reperti legati alla musica pop inglese, dalle foto della british invasion degli anni sessanta alle fanzine e agli abiti del punk.

I problemi curatoriali legati a questa operazione sono già venuti fuori. I musei legati a interpreti famosi, della musica sia classica sia pop, anche quelli più belli e curati, rimangono sempre una specie di Wunderkammer, di stanze delle meraviglie per fan, collezionisti e impallinati che raccolgono mucchi di roba senza troppa distinzione tra pezzi importanti e cianfrusaglie e senza alcun criterio che possa permettere a questi reperti di parlare al pubblico al di là del loro aspetto puramente feticistico.

Le teche degli Hard Rock Café sparsi per il mondo sono un tipico esempio di questo approccio: i trofei dei grandi del rock sono esposti al pubblico solo in funzione feticistica. Chitarre, plettri, giubbotti e spartiti rischiano di sembrare solo paccottiglia. Anche perché, a ben vedere, lo sono. Il rischio su un arco di tempo più lungo è quello di creare dei piccoli santuari, pieni di significato per i fan ma tutto sommato delle isole di nostalgia staccate da qualunque dibattito sulla contemporaneità. Penso a raccolte anche molto affascinanti, come nel museo Umm Kalthoum del Cairo o nel museo Carmen Miranda di Rio de Janeiro, quasi dei mausolei che celebrano più due icone nazionali che due folgoranti innovatrici della cultura popolare.

Il rischio di diventare parchi a tema
Il museo degli Abba a Stoccolma, ricchissimo e innovativo dal punto di vista della tecnologia espositiva, ha invece un problema curatoriale opposto: rischia di essere più un parco tematico che un luogo di conservazione e di elaborazione. Non che manchino i reperti o l’intelligenza espositiva: si è solo troppo presi a fare il karaoke su Waterloo o a farsi i selfie vestiti come Agnetha per ragionare a mente fresca sull’unicità della parabola artistica e industriale del gruppo svedese.

Una visitatrice del museo degli Abba fa il karaoke con gli ologrammi della band, a Stoccolma, il 7 maggio 2013. (Jonathan Nackstrand, Afp)

Un buon museo del pop, per semplificare al massimo, deve imparare a far parlare e a far dialogare tra loro un mucchio di cianfrusaglie. Non ci sono tavole di Raffaello o grandi tele di Pollock a illuminare lo spazio con la loro aura: ci sono scatoloni pieni di foto, copertine di dischi sbiadite, bozzetti, calendari, fanzine ingiallite e noiosi dischi d’oro e di platino. Non è solo una questione di tecnologie e di multimedialità: una videoproiezione in più non può supplire all’assenza di una linea curatoriale che sappia veicolare l’intangibilità di quel manufatto culturale che chiamiamo pop music.

Il problema della musealizzazione dell’immateriale è ben noto ai curatori dei musei di strumenti musicali. I preziosi violini Amati o Stradivari del museo del violino di Cremona, spesso battuti all’asta a prezzi più alti di un Picasso o di un Monet, cosa sono dal punto di vista espositivo?

Hanno sicuramente un loro valore artistico: sono oggetti splendidi, strumenti perfetti, spesso finemente decorati. Ma uno strumento chiuso in una teca, e che quindi non suona, cosa ha da raccontare? Un intelligente e spettacolare apparato didattico come quello del museo di Cremona sicuramente ci aiuta ad apprezzare le finezze ingegneristiche dell’antica liuteria, anche se con i violini si è deciso di percorrere una pericolosa via di mezzo: questi oggetti preziosissimi ogni tanto vengono tirati fuori dalle loro teche e suonati.

Un’operazione che fa inorridire chi di mestiere si dedica allo studio e alla conservazione di questi strumenti che, ricordiamolo, sono una specie di prototipo, di “idea platonica” del violino a uso delle generazioni future. Con i violini è un serpente che si morde la coda: è proprio il loro valore immateriale (il loro favoleggiato suono, il fatto di essere stati toccati da personalità leggendarie, di essere stati regalati a principi o a imperatori) ad alimentare il loro valore materiale (i prezzi altissimi con cui sono battuti all’asta).

Un museo dunque si trova a dover camminare su questa fune tesa e a dover trovare il modo di comunicare con efficacia tutta questa complessità.

La mostra di Björk al Moma di New York, il 3 marzo 2015. (Timothy A. Clary, Afp)

La mostra di Björk al Moma dell’anno scorso, demolita compattamente dalla critica musicale e da quella dell’arte contemporanea, è un caso da manuale su cosa non fare: in uno spazio angusto e inadeguato il materiale video cannibalizzava qualunque altro reperto e i costumi di scena, esposti su dei manichini, apparivano frusti e polverosi come i più tristi fondi di magazzino di sartoria teatrale. Forse era presto per una retrospettiva dedicata a un’artista relativamente giovane ma il materiale valido certo non mancava. Roberta Smith sul New York Times ha affondato la lama proprio nel punto più vulnerabile:

Questa mostra puzza di indecisione, ed è il simbolo evidente di come il Moma stia disperatamente cercando di essere troppe cose tutte insieme, con il risultato di non curarsi del proprio pubblico abituale, di aver abbassato la guardia in maniera allarmante sul fronte curatoriale e di mostrare indifferenza per la gestione dei grandi flussi di visitatori. L’allestimento punitivo della mostra di Björk cerca di promuovere in modo superficiale l’eclettismo del museo, ma finisce per fare di un’esperienza insolita qualcosa di semplicemente sgradevole.

Non solo la mostra non comunicava l’aspetto immateriale della produzione artistica di Björk, ma falliva anche come esibizione di bric-à-brac per i fan.

Punto di non ritorno
Il Victoria & Albert museum, con la mostra David Bowie is del 2013 (al Mambo di Bologna fino al 13 novembre) ha invece mostrato una strada diversa. I curatori hanno lavorato con l’artista che, come sappiamo col senno di poi, si stava preparando per la sua morte.

L’unicità di David Bowie deriva dalla consapevolezza dell’artista per l’aspetto multidisciplinare della sua arte. Bowie non era solo una rockstar, era un uomo di teatro, completamente immerso nelle arti visive per la maggior parte della sua vita. E la mostra che si è praticamente cucito addosso prima di morire è un viaggio nel suo processo creativo. Non solo una raccolta di ricordi o la tomba di un faraone zeppa di ori, ma un percorso a ritroso nella memoria, una celebrazione più che di se stesso, delle cose e delle persone che l’hanno influenzato.

David Bowie is è un punto di non ritorno nel processo di musealizzazione della pop music. È il perfetto punto di equilibrio tra l’estasi collezionista e feticista dei fan e un approccio più critico e curatoriale. Eppure c’è ancora tanta strada da fare se il nostro obiettivo è quello di uscire, come hanno saputo fare le arti visive nel settecento, dal concetto di Wunderkammer o quadreria per approdare a quello di museo moderno, al servizio dell’intera comunità.

Rendere con una mostra il valore immateriale della musica pop, l’unicità della sua esperienza, è ancora un obiettivo lontano. Forse al momento ci si avvicinano di più le micromostre, molto verticali su un singolo tema e capaci di fotografarci un momento, magari da un punto di vista inaspettato.

Quest’estate all’Institute of contemporary art di Londra sono stato molto colpito da una piccola mostra dedicata al lavoro dello stilista e art director Judy Blame. Blame è lo stylist dei migliori servizi di moda e delle migliori copertine delle riviste i-D e The Face tra gli anni ottanta e novanta.

È l’uomo che ha vestito Neneh Cherry per la copertina di Raw like sushi e che ha traghettato nella club culture londinese un certo approccio punk, coniugandolo con influenze etniche e un gusto surreale per la spazzatura. Blame non è una rockstar ma forse è qualcosa di più: è una specie di stregone, un sacerdote dell’immaterialità della pop music. La mostra, davvero piccola ma molto completa, riesce a far parlare gli oggetti, a metterli in rapporto tra di loro e a proiettarli dal recentissimo passato nel presente. Forse uno dei segreti per raccontare la musica pop in un museo è proprio questo: partire da un punto di vista molto laterale e ricostruire con pazienza la storia da zero, da un bottone, da una spilla, da una foto.

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