24 ottobre 2016 14:19

Solo oggi in quaranta sale italiane sarà possibile vedere come evento speciale il documentario Mapplethorpe di Fenton Bailey e Randy Barbato. L’artista statunitense (1946-1989), una figura di spicco dell’underground newyorchese, è stato un fotografo scandaloso, osceno e sublime. Era un uomo bello e ambizioso che ha usato la sua sessualità vorace e onnivora come strumento per definire se stesso, prima, e per leggere e rappresentare il mondo poi.

Il documentario comincia a Floral Park, Queens, New York, un sobborgo sonnolento e borghesuccio. Vicino a Manhattan in linea d’aria ma lontano anni luce culturalmente. Bob è un ragazzino magro e solitario. È il campione del quartiere di pogostick, il bastone a molla, ed è il cocco della mamma. È un alieno in quella casa ma nessuno si accorge della sua differenza: è un bambino perfetto, studioso e silenzioso. Nelle prime foto Robert sembra uno di quei ragazzini inquietanti del film di fantascienza Il villaggio del dannati.

Contro il parere del padre che, ironia della sorte, era un bravo fotografo dilettante, decide di iscriversi alla scuola d’arte a Brooklyn e lì comincia la sua metamorfosi. Vuole fare l’artista ma non ha le idee molto chiare e comincia a scattare le prime polaroid, che sono più che altro appunti, quasi degli schizzi dal reale.

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Il documentario di Bailey e Barbato è una ricostruzione della sua arte più che della sua vita e gli eventi biografici sono solo uno dei fili che si possono seguire. Al passato, documenti fotografici con la voce off dell’artista stesso, si alterna il presente asettico del caveau della Fondazione Mapplethorpe, in cui un gruppo di curatori passa in rassegna il suo lavoro in vista di un’importante mostra retrospettiva.

Tutte quelle foto di atti sessuali, di pissing e di fist fucking, demonizzate e censurate, passano tra le mani protette dai guanti di lattice dei curatori che ne parlano in modo distaccato e professionale. E finalmente possiamo vederle per quello che sono: opere d’arte accuratamente costruite, a volte gelide nel loro formalismo ma incandescenti per quello che osano mostrare. Guardando tutti quei cazzi, quelle scene orgiastiche orchestrate come quadri barocchi, viene in mente solo l’oscenità altamente stilizzata, rarefatta e letteraria dei romanzi di Jean Genet.

C’è qualcosa di sacro nell’arte oscena di Robert Mapplethorpe, cresciuto in una famiglia di ferventi cattolici. A sottolineare la ritualità e la sacralità del suo lavoro è proprio l’anziano parroco di famiglia che lo ha visto bambino. È impressionante la franchezza con cui questo vecchio sacerdote in sedia a rotelle, appassionato di opera lirica, interpreta le immagini pornografiche di quello che lui un tempo conosceva come “il piccolo Bob”.

Robert Mapplethorpe non aveva paura di morire: non voleva andarsene proprio sul più bello

Nel documentario tutti gli intervistati, parenti, amici e amanti, parlano in modo molto franco. Parlano della sua vita, della sua sessualità e della sua arte. È un po’ come se Robert avesse lasciato loro in eredità un po’ della sua impudicizia. C’è chi piange, chi lo dipinge come un prostituto senza scrupoli e chi, come Patti Smith, la sua prima amante, lo evoca come un doppio, un gemello da cui la vita l’ha allontanata.

Robert usava la sua bellezza e il suo sesso per manipolare la gente. Non solo gli uomini ricchi e più vecchi con cui si accompagnava, o i suoi modelli che rimorchiava nei sexclub di New York, ma anche le donne, galleriste, collezioniste, signore dell’alta società. Robert Mapplethorpe, come faceva Andy Warhol negli stessi anni, passava agevolmente dall’underground più torbido ai cocktail party di Park Avenue, rimanendo sempre immacolato.

Mapplethorpe scopre di essere malato di aids proprio quando le cose per lui stavano decollando commercialmente. E, come sottolinea il fratello Edward, suo assistente, non riusciva ad accettarlo. Non aveva paura di morire: non voleva andarsene proprio sul più bello. Pochi giorni prima di morire organizza una grande festa di cui esistono delle immagini splendide e terribili. Mapplethrope è ancora pieno di fascino nella sua terribile magrezza. È seduto su una poltrona, vestito da sera e gli invitati sono costretti a inchinarsi per parlargli, per dargli un bacino sulla guancia o una carezza. Tutti sanno che lo stanno salutando per l’ultima volta e gli stringono la mano ossuta come una reliquia.

Verso la fine del documentario colpiscono le parole del fratello Edward: “Qualunque fosse la forza che ha reso mio fratello Robert Mapplethorpe un artista è la stessa cosa che lo ha divorato e ucciso”.

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