18 ottobre 2016 18:01

Il negro dialect, il dialetto dei neri, è la vena d’oro che attraversa l’Huckleberry Finn di Mark Twain, romanzo fondativo della grande letteratura americana. Una vecchia copia del libro è sotto vetro nel museo di Washington dedicato alla storia e alla cultura afroamericana. L’ingresso è gratis ma ci vuole la prenotazione. Tuttavia, prenotazione o no, si fanno file, una lunga processione di uomini neri, donne nere, anziani neri, bambini neri.

Questo corteo, una volta dentro, si muta in una folla quasi tutta di afroamericani che si ingorga intorno alle testimonianze dell’oppressione e della grandezza della gente nera. Agli atleti con il pugno chiuso di Città del Messico sono dedicate grandi statue dorate; sotto vetro c’è il giacchetto di Jimmy Hendrix; Malcolm X dice in un cartiglio che libertà, uguaglianza, giustizia sono cose che non ti dà nessuno, e se sei un uomo te le devi prendere.

Pare solo una visita per imparare l’orgoglio, ma è anche una grande manifestazione che salda ciò che viene più o meno luminosamente confezionato nell’edificio con ciò che ribolle fuori, in tutta la sua cupezza.

Il museo non è molto distante dalla Wisconsin avenue che un pugno di ragazzi bloccano all’improvviso sedendo composti sull’asfalto. Hanno cartelli contro la politica neoschiavista, quella che prescrive: punisci duramente il negro per cosette, così starà attento a non fare cosacce.

Questa rubrica è stata pubblicata il 14 ottobre 2016 a pagina 14 di Internazionale. Compra questo numero | Abbonati

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