27 novembre 2014 11:59

Assim Abassi è un ragazzo pachistano di ventidue anni che vive a Bruxelles con i genitori e i fratelli. Suo padre lavora all’ambasciata del Pakistan. Il 24 agosto 2014 Assim camminava per avenue Louise, una strada di palazzi e negozi eleganti poco lontana dal centro storico di Bruxelles, stringendo sotto il braccio la sua mazza da cricket, che aveva avvolto nella felpa per proteggerla dalla pioggia.

Vedendolo passare e trovando che avesse un’aria sospetta, una zelante guardia della residenza dell’ambasciatore israeliano gli scatta una foto e la manda alle forze dell’ordine belghe, che avviano un’indagine.

Dopo quasi tre mesi di ricerche a vuoto, la polizia decide di rendere pubblica la foto di Assim, che il 15 novembre si ritrova in prima pagina di alcuni quotidiani sotto titoli degni di un tabloid britannico (“Un assassino antisemita a piede libero?”). Il ragazzo corre a spiegare il malinteso, ma la faccenda si complica. La famiglia Abassi ora sostiene che il padre è stato richiamato in Pakistan per via dello “scandalo”, mentre dall’ambasciata del Pakistan assicurano che il contratto dell’uomo è semplicemente giunto al termine previsto.

Adesso, in molti si stanno mobilitando perché Assim e la sua famiglia non siano mandati via dal Belgio, mentre la Ligue des droits de l’homme s’interroga sulla legalità della collaborazione all’origine della vicenda: quella tra la guardia privata israeliana, che ha scattato la foto, e la polizia belga, che sulla base di quell’unica immagine ha avviato un’indagine.

La storia non ha nulla di assurdo in un paese dove, all’ingresso del consiglio regionale di Bruxelles-Capitale, un consigliere può essere fermato da un poliziotto in base al suo aspetto. “Gli ho detto che ero un consigliere”, ha raccontato Youssef Handichi. “E lui ha risposto: ‘Non ce l’hai mica scritto in faccia’, dandomi del tu in tono aggressivo”.

In Francia, nel 2011 è nato il collettivo Stop au faciès per denunciare i controlli di polizia basati proprio sull’aspetto delle persone (contrôles au faciès). Il collettivo offre sostegno alle vittime, pubblica un manuale di difesa (Guide d’action face aux contrôles abusifs), ha prodotto una serie web e ha sviluppato un’app che permette di segnalare gli abusi.

Negli Stati Uniti il problema non si pone, o almeno non è quello più urgente. Lì la polizia non controlla, spara. E in questi giorni di proteste per l’omicidio di Tamir E. Rice, 12 anni, freddato da un agente a Cleveland il 22 novembre, e per la decisione di non incriminare il poliziotto che il 9 agosto ha ucciso Michael Brown a Ferguson, mi tornano in mente le parole di Teju Cole sul “corpo nero”:

Nessuno pensa che chi fa ‘dolcetto o scherzetto’ ad Halloween sia una minaccia. Le forze dell’ordine non vengono mandate contro le girl-scout che vendono biscotti o contro i testimoni di Geova. Ma il corpo nero è pre-giudicato, e di conseguenza messo inutilmente a repentaglio. Essere nero vuol dire sostenere l’urto di un’applicazione selettiva della legge, e sperimentare un’instabilità psichica in cui non c’è nessuna garanzia di sicurezza personale. Sei innanzitutto un corpo nero, prima di essere un ragazzino che cammina per strada o un professore di Harvard che non trova le chiavi”.

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