18 novembre 2016 19:28

A Tribe Called Quest, We the people
Gli A Tribe Called Quest sono un gruppo storico dell’hip hop statunitense, guidato dal rapper Q-Tip. Sono politicizzati, ma spesso alla violenza verbale dei loro colleghi preferiscono un approccio più ironico e intellettualoide. We got it from here…thank you 4 your service è il loro primo album in 18 anni ed è la prova di come l’hip hop old school possa essere ancora attuale e pungente. Il suono caldo del collettivo conserva tutte le caratteristiche del rap east coast (quello di New York, quello dei Public Enemy, per capirci). We the people, che campiona i Black Sabbath di Behind the wall of sleep, è uno dei pezzi più politici del nuovo disco ed è un atto di accusa contro mezza America: la polizia, l’agenzia delle entrate, i mezzi d’informazione, i razzisti, gli intolleranti. Il ritornello cantato da Q-Tip (”All you Black folks, you must go All you Mexicans, you must go And all you poor folks”) suona quanto mai attuale nell’America di Donald Trump, non ce ne vogliano i suoi simpatizzanti.

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Yussef Kamaal, Strings of light
Che l’elettronica e l’hip hop siano riusciti a dare una scossa anche al jazz? Può darsi, visto che da un paio d’anni a questa parte anche noi non puristi (in questi noi metteteci un po’ chi vi pare, io ci sono sicuro) abbiamo ricominciato ad avvicinarci al genere. Un po’ merito di Kendrick Lamar, che ha fatto conoscere al grande pubblico il sassofonista Kamasi Washington. Un po’ merito della vitalità della musica black, non solo negli Stati Uniti, che è viva e ha un sacco di motivi anche politici per farsi sentire. Questo progetto jazz non è americano, ma britannico. Il gruppo si chiama Yussef Kamaal, dai nomi dei suoi due componenti: Yussef Dayes (batteria) e Kamaal Williams (polistrumentista). Hanno da poco pubblicato il loro album d’esordio, Black focus, e mescolano il jazz funk degli anni settanta con i suoni della club culture londinese. Se volete vederli dal vivo, vi do una dritta: suoneranno il 2 dicembre a Roma, il 3 a Milano, il 4 a Firenze e il 7 dicembre al festival torinese Jazz Re:Found.

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The Magnetic Fields, ‘74 no
Stephin Merritt è un nome di culto nella musica indipendente statunitense. Ha dato vita a diversi progetti, su tutti quello dei Magnetic Fields, band con la quale gli piace pubblicare album ai limiti dell’assurdo. Per esempio 69 Love songs, album che raccoglie come da titolo 69 (!) canzoni d’amore, tra le quali svettano piccoli capolavori come The book of love. Per il nuovo disco, 50 song memoir, Merritt, oltre a tirare fuori una nuova tracklist al limite della sanità mentale (le canzoni sono appunto 50, una per ogni anno di vita del musicista), ha suonato più di cento strumenti. Gli piace esagerare.

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Metallica, Now that we’re dead
Finalmente i Metallica hanno ricominciato a fare i Metallica. La band statunitense, dopo aver pubblicato diversi dischi che definire interlocutori è un complimento, ha imboccato di nuovo la strada giusta: il doppio Hardwired… to self-destruct è un disco metal tosto, con qualche riempitivo ma altrettanti buoni pezzi. In tanti l’hanno definito “il migliore dai tempi del Black album”, ma non essendo un purista del genere lascio ad altri queste sentenze. Preferisco godermi questi bei riff alla Black Sabbath, come quello di Now that we’re dead.

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Salmo, Don Medellín ft. Rose Villain
Salmo in questo momento è probabilmente il miglior rapper italiano. Il 25 novembre il musicista sardo pubblicherà l’edizione deluxe del suo ultimo disco, Hellvisback, dove si è divertito a contaminare il suo rap con il rock e il pop. Nell’edizione speciale dell’album c’è anche questo inedito, costruito su un beat scarno a base di basso e chitarra dobro. Il testo si rifà ampiamente al mondo delle serie tv: cita Narcos e Gomorra. Il video è stato realizzato da Younuts, con la regia dello stesso Salmo.

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