13 febbraio 2016 11:34

Metti insieme due persone che insieme non sono mai state;
a volte il mondo cambia e a volte no. Può darsi che si schiantino
e prendano fuoco, o che prendano fuoco e si schiantino.
Ma a volte, invece, ne nasce qualcosa di nuovo, e allora il mondo cambia.
Julian Barnes, Livelli di vita

La tecnologia, il cortile e la letteratura mi hanno insegnato che è difficile raddrizzare il legno che si è storto dopo aver chiuso una storia d’amore o aver perso qualcuno, che non c’è un modo giusto per affrontare un lutto o lasciarsi, ma anche che c’è un modo per sopravvivere e tenersi.

Prenderò delle storie da una delle idee più semplici e potenti viste in rete per capire di che parliamo quando parliamo di legni storti. È un tumblr, si intitola The last message received e l’ha creato una quindicenne dell’Ohio pochi mesi fa. Emily Trunko ha fatto qualcosa di simile a quello che François Truffaut ha raccontato nel film La camera verde, e cioè ha creato uno spazio dove ciascuno può raccontare le persone che ha amato e che non ci sono più. Ma mentre nella pellicola del regista francese il protagonista lo faceva attraverso foto e candele, Trunko pubblica gli ultimi messaggi ricevuti da amanti scaricati, figli d’improvviso orfani, mogli d’un tratto vedove, amici rimasti soli.

La tecnologia

Al momento The last message received conta diecimila messaggi e 83mila followers. Le foto di schermi di telefoni o computer raccontano storie così:

È vero. Pensare a te mi fa sorridere davvero tanto
Amore, ti amo
È morto qualche giorno dopo per un’overdose

O così:

Non sei più venuto. Perché
Perché non ti amo più.

Ogni giorno per un mese l’ho invitato a vedermi recitare. Lui diceva che sarebbe venuto perché è questo quello che gli amici fanno, ma non lo ha mai fatto. Gli ho chiesto perché e questa è stata la sua risposta.

Ovvero così:

Che problema hai?
A dire il vero tu sei parte del problema.

In pochi giorni era passato dal voler risolvere le cose all’avere una nuova ragazza.

La cosa più sconvolgente di queste storie non sono le storie. Dal momento che sono millenni che nasciamo e ci amiamo, sono millenni che moriamo e ci lasciamo. La cosa che più disarma dopo averle lette è il freddo nel ricevere o inviare un messaggio: e se fosse l’ultimo anche per noi? È una spia dei giorni che viviamo: lasciamo molte più tracce che in passato, moltiplichiamo i ricordi, e potenzialmente moltiplichiamo anche il dolore che lasciamo dietro di noi. Tutta la nostra vita online è una bolla, passiamo le giornate a soffiarci dentro. Abbiamo bisogno di anticorpi per quando le bolle esplodono.

La letteratura

Ciascuno trova il modo di fare i conti con una perdita, ma una cosa che accomuna molti è il tentativo di cancellare le ferite, o meglio: di ripulirle. C’è una scena nel libro La morte del padre di Karl Ove Knausgård che ha segnato chiunque l’abbia letta. L’autore norvegese da anni racconta la sua vita in libri tradotti in tutto il mondo e diventati di culto. Lo fa con l’ossessione per i dettagli e le nevrosi, e un certo gusto per lo sfinimento del lettore, che a volte si trova impantanato in pagine piene di gesti inutili, scene vuote, descrizioni prescindibili: salvo poi rendersi conto che tutto si tiene, perché su tutto si è posato un bisturi e il bisturi ha affettato il mondo e del mondo ci ha restituito il suo cuore.

Questo cuore nel primo dei tre libri finora editi da Feltrinelli in Italia arriva dopo 264 pagine. Un libro sulla morte del padre in cui la morte del padre arriva dopo 264 pagine. L’uomo si era lasciato con la moglie e aveva iniziato a bere, prima con una nuova compagna e poi da solo, rifugiandosi a casa della madre. Sarà la nonna dello scrittore a trovarlo morto su una poltrona. Quando Knausgård e il fratello arrivano da lei, lui non c’è più, è all’obitorio, ma dietro di sé ha lasciato i segni di una devastazione inaudita: piscio, feci, puzza, bottiglie vuote, panni sporchi, avanzi di cibo, spazzatura.

Rieko Honma, Getty Images

È una scena dantesca, l’inferno al piano terra, la salvezza in mansarda, il purgatorio fatto di sforzi infiniti per ripulire tutto. Le operazioni vanno avanti per pagine e pagine, tutto è raccontato nei minimi particolari perché deve servire a dare senso e sostanza e immagine alla sensazione di morte che gravita su tutti gli oggetti nella casa:

Dunque, come tenere lontana quella sensazione? Oh, lavando. Strofinare e fregare, raschiare e lustrare. Vedere come una dopo l’altra le piastrelle diventavano pulite e scintillanti. Pensare che tutto quello che era stato distrutto in quella casa, sarebbe stato ricostruito. Tutto. Tutto.

Ho raccontato questa scena ad amici, ce la siamo raccontati tra lettori di Knausgård, ho provato a replicare quando in molti dicevano che tutto era legato alla follia dello scrittore, alla drammaticità della morte del padre, alla bislaccheria dei popoli del nord. Non ho convinto molte persone, perciò ho bisogno di parlare del cortile.

Il cortile

Qualche anno dopo la morte raccontata dallo scrittore norvegese, mia madre ha compiuto gli stessi gesti ossessivi a casa mia, dopo la morte di mio padre in un incidente. Celebrato il funerale, ha pulito tutto e fatto sparire vestiti, scarpe occhiali orologi, documenti, telefono e foto. Ma senza i drammi o la ferocia riconducibile alla vicenda di Knausgård. E in Sicilia, all’altro capo dell’Europa, se così si può dire. L’ha fatto come lo avranno fatto altre persone in situazioni simili, puliscono le loro ferite affinché non si incancreniscano e mettano in pericolo altre parti del corpo, della psiche, della famiglia. Negli anni i nodi si sono sciolti, sono cominciati a tornare i ricordi, gli oggetti e le parole. Nel cortile si sono tessuti altri fili, che tengono tutto insieme.

Quando parlo di cortile, parlo della provincia siciliana, e di una concezione circolare del tempo che ancora resiste da quelle parti, e che probabilmente è dovuta a un culto dei morti ancora forte. La concezione ottocentesca della storia come marcia inarrestabile verso l’avvenire è messa in crisi da un’idea di circolarità che fa precipitare passato e futuro nel presente, in qualcosa che è simile a un abbraccio costante con chi ci ha preceduto. Non è un discorso nostalgico, ci sono poche cose brutte in Italia come certe province del sud, è un dato di realtà. E mi ha fatto pensare a una cosa che ho letto dentro John Berger e a una che ho letto dentro Aldo Busi, e che insieme possono dare vita a un’idea minima per sopravvivere agli amori finiti e agli affetti scomparsi.

Quel che è tenuto

È una cosa che può valere anche in tempi in cui le nuvole sembrano più dense e nere che in altre epoche, e molti pensano che viviamo rotture e lutti sempre peggio a causa della tecnologia. Lo pensa per esempio il filosofo Zygmunt Bauman, quando dice con un certo gusto dell’apocalisse che “la rete serve soprattutto per i momenti di svago. E per uscire dalle relazioni in fondo basta spingere il tasto cancella”, o quando scrive che i social network non sono che il nuovo oppio di popoli sbranati dalla solitudine. Lo pensa l’antropologo Franco La Cecla, che con gusto del divertimento mette insieme una casistica di rotture amorose tutte da leggere nel saggio Lasciarsi, e mette in guardia dai pericoli dei nuovi mezzi di comunicazione: “Se gli addii vengono mediati da telefoni, e-mail, sms, la loro natura si riduce e parzializza, non abbiamo a che fare con la persona intera, ma con un suo surrogato e anche gli addii diventano surrogati di un addio”.

A me vien da pensare che tutto questo si chiama evoluzione, e che già in passato l’uomo ha dovuto adattarsi a tecnologie che hanno modificato il proprio modo di vivere e amare, lasciarsi e piangere i propri morti. Lo hanno fatto la scrittura (ci si è lasciati attraverso lettere che devono essere state crudeli, anche se oggi ci sembrano più romantiche di un messaggio su WhatsApp), o la cremazione (l’idea di incenerire il proprio corpo era ritenuta abominevole fino a poco tempo fa). E oggi ci sembra accettabile chiudere una relazione usando il telefono, come dimostra una ricerca condotta da Ilana Gershon dell’università dell’Indiana.

Rieko Honma, Getty Images

Quello che ci serve sono nuovi anticorpi: arriveranno. Nell’attesa, ci si può affidare a Berger e Busi, e all’idea minima che vien fuori dal considerare il tempo come una variabile centrale nella fine di un amore o di una vita. Scrive Berger in un saggio che si intitola Quel che è tenuto: “L’idea di un tempo uniforme entro il quale tutti gli eventi possano collegarsi temporalmente dipende dalla capacità di sintesi della mente”. Lo scrittore britannico invita a rifiutare la concezione del tempo come di un fluire ordinato e lineare, in cui ci sono sempre rotture a scandire i prima e i dopo. È un’idea relativamente recente, spiega, una delle poche idee sopravvissute al diciannovesimo secolo. Al tempo ottocentesco che frammenta tutto e spiega tutto attraverso l’immagine della caduta (la nascita è il punto più alto della nostra vita, la vecchiaia è una caduta libera), Berger oppone “l’atto d’amore ideale il cui fondamento è contenere tutto:

In ogni forma d’amore il passato e il futuro sono compresi come presente. Quel che è momentaneamente tenuto, colto dall’immaginazione attraverso l’energia dell’amore, produce un tutto che è fuori dal tempo.

Sembra paradossale voler guarire le ferite dell’amore con l’amore, ma forse è più semplice se ci immaginiamo con una bilancia in mano, e immaginiamo che il peso possa essere l’unità di misura della pienezza di una vita. Gli amori storti, sbagliati, finiti ne faranno parte, così come le persone a cui abbiamo voluto bene e che sono morte, le nostre giornate potranno dirsi piene se riusciremo a tenere tutto nella bilancia. E guardare a quel piatto con lo spirito di leggerezza e distacco con cui Busi, in Seminario sulla gioventù, invita a guardare alle cose della vita:

Cosa resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo a un risolino di stupore, stupore di essercela presa per così poco, e anch’io ho creduto fatale quanto poi si è rivelato letale solo per la noia che mi viene a pensarci.

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