17 giugno 2015 16:31

Con l’avvicinarsi dell’estate in sala escono sempre meno grandi film. Così cominciamo ad affrontare il vasto campo delle novità in dvd scegliendo quelle che ci sembrano più intriganti, in modo da recuperare opere importanti di cui verificare qualità e statura. La prima è Teatro di guerra di Mario Martone (Lucky Red).

Sulla copertina il dvd porta una dichiarazione di Morando Morandini, il più probo dei vecchi critici, che lo definisce il miglior film italiano degli anni novanta. C’è da dire che il cinema italiano di quegli anni fu uno dei più fiacchi e conformisti che ci siano mai stati, anche nelle idee dei registi e sceneggiatori che si dicevano oppositori dei poteri dominanti. Erano gli anni di Craxi e poi di Berlusconi, un trentennio di cui si salvano in cinema poche cose degne, e tra queste certamente Teatro di guerra (1998), terzo film di Mario Martone dopo Morte di un matematico napoletano (1992) e L’amore molesto (1995), prima del passo falso di L’odore del sangue (2004) e dei due imponenti film della maturità sulla storia italiana, Noi credevamo (2010) e Il giovane favoloso (2014).

A Napoli, un gruppo teatrale di quelli detti “di ricerca” lavora alle prove dei Sette contro Tebe di Eschilo, storia di una guerra fratricida, al Teatro Nuovo, anzi nelle cantine riadattate di quel vecchio glorioso teatrino situato nei Quartieri Spagnoli della città sopra via Roma cioè Toledo. La zona è a rischio, ci operano piccoli gruppi camorristi in lotta tra loro. Un giovane regista molto deciso ha messo insieme un bel gruppo di attori e tecnici con i quali vuol portare lo spettacolo a Sarajevo in guerra, dove è in rapporto con un regista del posto. Il gruppo vive le difficoltà di ogni comunità provvisoria, legata però da idealità comuni. La prima difficoltà è la scarsità di denaro, che mette il regista a confronto con il direttore-regista del locale teatro stabile e borghese. Due modi di intendere il teatro, la vita, il presente, la politica, il proprio posto nel mondo. Un noi e loro che passa sensibilmente dal teatro alla realtà e dal concreto di Napoli alla tragedia di Sarajevo.

Per cominciare, si tratta di un vero gruppo (è Teatri Uniti, fondato da Martone, Toni Servillo e altri amici, a cui si deve uno dei più straordinari spettacoli teatrali di quegli anni, Rasoi, inno alla miseria e alla nobiltà di Napoli) e di vere prove di un vero spettacolo, inframmezzate dalla descrizione dei rapporti tra le persone e tra loro e l’ambiente; tutto sull’idea-base dello spettacolo da far debuttare a Sarajevo, a ridosso di una guerra sanguinosa e non meno fratricida di quella tebana. Ci sono insomma una sceneggiatura, una regia, una finzione costruite nel vero e sul vero. Il procedimento non è nuovo, ma il film, procedendo per piccoli blocchi che si sommano rapidamente, andando e venendo dal luogo delle prove al quartiere e alla città, lo affronta con piena sicurezza e maestria, e con molta originalità. Sequenze brevi e senza fronzoli si susseguono, ma quelle più vive e necessarie, alla fine, sono quelle della vita, non quelle delle prove.

Ci si appassiona poco, insomma, per il teatro-teatro, e molto, invece, per il teatro della vita. In altre parole per il cinema molto più che per il teatro. Forse è questa la contraddizione in cui si dibatte, chissà quanto coscientemente, Martone, quella di essere miglior regista di cinema (grazie, è ovvio, anche alla sua esperienza del teatro) che regista di teatro. Regista vuol dire ideatore e coordinatore, significa tenere insieme moltissime cose a partire da un’ispirazione o vocazione di fondo e da un progetto estetico, ma anche etico e sociale. E, per alcuni che hanno il dono, significa diventare “autori” a tutto tondo, inventori di mondi, sconvolgitori di regole, esploratori per noi di dimensioni nuove e necessarie (si pensa qui ai registi veri, non ai mercanti di immagini e parole, di sentimenti).

In teatro, Martone è un regista meno “autore”, è in qualche modo prevedibile. In cinema la sua intelligenza, la sua arte della composizione e dell’assemblaggio paga di più, lo porta a costruire opere non più ardite ma più solide. Mentre la regia dei Sette contro Tebe è qui prevedibile e nei canoni dell’epoca, quella di Teatro di guerra ci sembra insieme fluida e densa, coinvolgente più del teatro.

Il contesto del teatro è più appassionante del teatro. Questo accade perché il richiamo all’ambiente e al presente (a quel presente, il presente della storia) è quanto ci coinvolge di più del film, è una storia che è anche nostra, non così lontana nel tempo, storia di partecipazione e di rifiuto di partecipazione, di minoranze coraggiose e di maggioranze indifferenti; ma anche perché la Tebe di Martone non riesce a dirci la vicinanza-distanza di Sarajevo e neanche la vicinanza, anzi la perfetta presenza della sua Napoli.

In ogni caso ha ragione Morandini: Teatro di guerra è uno dei pochi film significativi di anni molto vili per il nostro cinema e per la nostra società di “prima della crisi”, e Martone è uno dei pochi registi responsabili e seri del nostro cinema. Il film ha un altro merito straordinario: forse mai nel cinema italiano e raramente in quello internazionale l’ambiente del teatro è stato narrato così bene, soprattutto quello del teatro “di ricerca”. Un po’ meno raramente il cinema ha narrato bene Napoli, ma mai così bene la Napoli di fine novecento.

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