03 maggio 2016 13:03

Rivolgersi al melodramma per raccontare la storia è sempre stata una risorsa grandiosa per scrittori e registi. L’essenza del melodramma sta nel mostrare gli impedimenti che si frappongono al raggiungimento della felicità, più spesso all’incontro tra due persone, al loro amore. Secondo Pedro Almodóvar, che sul mélo ha costruito la sua fortuna temporanea (l’abuso del melodramma ha finito per essere di intralcio alla sua creatività), anche Ladri di biciclette è un melodramma, che racconta gli impedimenti a un posto di lavoro che assicurerebbe la sopravvivenza e una qualche serenità al protagonista e alla sua famiglia: “Quando il melodramma parla di disoccupati, lo chiamano neorealismo”.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Il melodramma per eccellenza resta Romeo e Giulietta, antica novella italica rivisitata da Matteo Bandello ed esaltata da Shakespeare, che ne ha fatto il modello per mille e assai più di mille varianti, più spesso tragiche e a pessimo fine, quasi sempre centrate sull’amore impossibile tra appartenenti a classi o etnie o fedi diverse, preferibilmente giovani o giovanissimi, vittime sacrificali circondate tra i loro coetanei dai trasmettitori, più o meno fanatici, di identità ossessive. E continuamente e cupamente la storia continua a offrirci malaugurati esempi di divisioni, odi, rivalse, faide tra famiglie, tra religioni, tra stati. La leggenda di Romeo e Giulietta si mischia tremendamente, ieri come oggi, con quella di Caino e Abele. Ed è sempre storia di umani che non sanno riconoscersi come confederati nella stessa origine e nello stesso destino.

Quando poi il contrasto passa dai pochi ai tanti, la storia si fa urlo e furore, ieri come oggi. Le speranze in un mondo migliore cresciute dopo la seconda guerra mondiale sono durate ben poco, e nel mondo di oggi, a est e a ovest e a nord e a sud, è come nel mondo di ieri. E quando “noi” si contrappone a “loro” tornano a nascere dei Romei e delle Giuliette.

Il regista di Zagabria Dalibor Matanić, ora quarantenne, ha visto la sua vita segnata come quella di tutti gli abitanti della ex Jugoslavia dalle divisioni etniche, in particolare tra serbi e croati, e ha scelto di raccontare proprio questo, su tre sfondi storicamente connotabili: il 1991 e la guerra che incombe; il 2001 e il ricordo vicino dei conflitti e delle morti; il 2011 e le difficoltà di un nuovo incontro. Tre episodi interpretati dagli stessi attori in ruoli diversi per dire momenti diversi, storie diverse ma legate dalle catene dell’ossessione identitaria e dei confronti mortali.

Le radici del conflitto

Ottime intenzioni e ottimo mestiere concorrono alla creazione di un successo internazionale, la cui sincerità è indubbia così come è indubbia la capacità professionale di restituire passo passo, tra il detto e il non detto, con adeguato controllo dell’ellisse, i modi in cui il conflitto ha avuto radici nella memoria di antichi torti subiti (troppa memoria nemica della fraternità, così come altrove può esserlo la poca memoria, per esempio in Italia) e i modi in cui esso si è imposto all’esperienza di tutti, in particolare dei giovani, e ha tutto travolto.

Gli stessi bravi attori (Tihana Lazović e Goran Marković, e i comprimari), lo stesso paesaggio, ma anche le stesse luci e le stesse ombre, la luminosità del giorno e il contrasto degli interni e delle notti, e l’attenzione alla costruzione della storia di chi sa il fatto suo, e sa ben commisurare le intenzioni e i modi di trasmetterle. A questo film maturo si può solo rimproverare una maturità troppo dimostrata, un’intenzionalità troppo evidente, e in definitiva una progettualità dove il calcolo e la misura frenano per troppa sollecitazione l’emotività dello spettatore non ingenuo, anche se è chiaro che il regista pensa, sanamente, allo spettatore comune.

Sole alto è uno di quegli ottimi film di cui si può dire che sono “come quelli di una volta”, pensati per commuovere e per far pensare con mezzi onestamente tradizionali. Anzi meglio, che sono come quelli di una volta ma che sanno prendere qualcosa da quelli più coraggiosi di ieri e non dell’altro ieri (per restare sul posto, qualcosa da Emir Kusturica ma poco da Dušan Makavejev). È un film esteticamente a metà. L’importante è però il risultato: ci saranno spettatori che ne resteranno coinvolti, e che magari saranno, si spera, più attenti alle loro male pulsioni religiose e nazionali, di dialetto e di lingua, di colore e di costume.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it