10 ottobre 2016 11:52

André Téchiné, classe 1943, apprendistato nei Cahiers du cinéma come critico, regista incerto alle origini e poi, da Niente baci sulla bocca (1991) e L’età acerba (ovvero Les roseaux sauvages, 1994), pienamente padrone dei suoi mezzi e del suo progetto, fa ancora fatica a venir riconosciuto come il maestro che è. Nel suo racconto piano e preciso della piccola borghesia francese e dei suoi valori e comportamenti, è facile vederlo come un continuatore egregio del modello Truffaut, ma con una coerenza maggiore del maestro, meno nevrotica e più lucida di fronte a costumi e contraddizioni, forza e fragilità e a volte, anzi spesso, pregiudizi, di una cultura che continua a dividersi in parigina (filosofante e presuntuosa) e provinciale (che dà antropologi e sociologi più concreti).

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Nonostante i Cahiers, Téchiné è rimasto un provinciale, un lettore attento delle mutazioni sociali – diciamo pure della storia nei suoi risvolti concreti e in quelli più intimi – e dei modi di pensare e di agire che ne derivano. Non corre a conclusioni affrettate, a effetto, non cerca la poesia nel magniloquente e nel finto-profondo, e porta un’attenzione all’ambiente fisico (qui i Pirenei, la montagna, il sud-ovest della Francia) non meno che a quello umano, che vuol dire anche il lavoro, le professioni, e diciamo pure le classi, le differenze che persistono nonostante una dominante culturale unica, più avvertibile nella provincia che nelle due metropoli, Parigi e Marsiglia.

Tra gli altri suoi film “adulti”, è bene ricordare il bel dittico su Tangeri, Lontano e I tempi che cambiano, e I testimoni, registro di vicende terminali e dei modi di considerarle, storie di aids. Téchiné è gay e con i suoi film è forse il regista che ha raccontato con maggior chiarezza e comprensione il mondo degli omosessuali non in modi da copertina e salotto: nella sua durezza, Niente baci sulla bocca, è un film destinato a restare come una delle più oneste e forse profonde descrizioni di una cultura e di un ambiente radicalmente umani.

A reggere tutto il film è una storia d’amore, descritta con intelligenza e pudore dal regista

Nel suo ultimo film, si parla di due adolescenti compagni di scuola, il primo figlio di una dottoressa e di un militare perfettamente e democraticamente convinti delle proprie missioni, il secondo adottato da una coppia di contadini-allevatori poveri di montagna. Tra attrazione e repulsione (la repulsione è, per il povero, anche di classe, e di fatica ad accettare la propria natura), è la loro storia, che è infine una storia d’amore, a reggere il film, descritta con intelligenza e pudore dal regista anche grazie alla collaborazione di Céline Sciamma, sceneggiatrice e regista che si è interessata egregiamente al mondo dell’infanzia. Ma questa storia ha peso e sostanza anche grazie al contesto, alle due famiglie e allo sfondo più naturale che sociale, visto che a esaurire il contesto sociale bastano appunto le due famiglie.

L’evoluzione della vicenda (dell’incontro tra i due ragazzi, una vera storia d’amore) è convincente e avvincente per il modo in cui vi si intrecciano personaggi e sfondo: l’una cosa non avrebbe respiro se non ci fosse l’altra. In una buona narrazione questo dovrebbe essere ovvio, ma succede molto più di rado di quanto non si pensi (e con un po’ di cattiveria si potrebbe dire che non succede mai nel cinema italiano “ufficiale”, sponsorizzato dal nostro sistema economico-politico-mediatico). Sta qui la maestria del regista, la sua originalità – di essere pienamente autore pur rinunciando alle esibizioni autoriali care alla tradizione critica da cui proviene, riconquistando per il tramite dei classici (un certo Renoir, per esempio) una scioltezza del racconto che è piena di sostanza.

L’unico appunto che si potrebbe fargli è che, col tempo, sembra accadere anche a lui quel che è accaduto a Truffaut (a quello della serie di Antoine Doinel, per esempio, ma molto meno a quello più nevrotico, spaventato dalle complessità e oscurità dei rapporti umani soprattutto in amore), di accettare e anzi esaltare la società che racconta, accantonandone o attutendone le contraddizioni. In questo senso, se L’età acerba, ambientato negli anni della guerra d’Algeria, sembrò a tutti un film pienamente cosciente e dunque critico del sistema politico che vi era alle spalle, Quando hai 17 anni accetta senza discuterle, anzi approvandole, le scelte politiche – degli eletti dalla nazione – che rivendica il padre del ragazzo benestante, e per le quali egli muore in missione di guerra.

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