03 gennaio 2015 11:27

“Lo sapevate che è in corso una guerra del petrolio? E questa guerra ha un obiettivo preciso: distruggere la Russia”, ha dichiarato il presidente venezuelano Nicolas Maduro durante un’intervista televisiva. “È un conflitto pianificato accuratamente, e nel mirino c’è anche il Venezuela. Vogliono distruggere la nostra rivoluzione e provocare un collasso economico”. Secondo Maduro a scatenare la guerra sono stati gli Stati Uniti e la strategia di Washington è quella di saturare il mercato con il petrolio di scisto per innescare un crollo dei prezzi.

Il presidente russo Vladimir Putin concorda con Maduro. “Stiamo assistendo tutti al calo del prezzo del petrolio”, ha dichiarato recentemente. “Si parla molto delle cause di questa riduzione. Potrebbe essere provocata da un accordo tra Arabia Saudita e Stati Uniti per punire l’Iran e minare l’economia di Russia e Venezuela? Può darsi”. I diabolici americani ci stanno provando di nuovo, insomma.

In questi giorni si sentono molti discorsi simili, specialmente nei paesi più colpiti dal crollo del prezzo del petrolio. Giovedì scorso il Brent ha raggiunto i 55 dollari al barile, esattamente la metà rispetto a giugno. La settimana scorsa l’amministrazione Obama ha annunciato che si prepara ad autorizzare l’esportazione del petrolio statunitense sul mercato estero, e questo potrebbe provocare un ulteriore ribasso dei prezzi. (Le esportazioni di petrolio dagli Stati Uniti sono vietate dal 1973).

Quando il prezzo del petrolio crolla, a farne le spese sono naturalmente i paesi che dipendono dalla sua esportazione per far quadrare i conti. Oggi Putin, che ha lasciato che la Russia arrivasse a dipendere dalle vendite di gas e petrolio per oltre metà delle sue entrate (secondo alcuni addirittura l’80 per cento), deve affrontare un doppio problema: il valore del rublo si è dimezzato, mentre l’economia è già entrata in recessione.

Il Venezuela, la cui spesa pubblica dipende sicuramente dalle esportazioni di petrolio per più del 50 per cento, è in guai ancora più seri. Come Putin in Russia, anche Maduro pensa che dietro tutto questo ci sia la mano degli americani. Diversi commentatori occidentali hanno sposato questa tesi e la teoria del complotto sta mettendo radici nei paesi sviluppati.

Cerchiamo di capire se stiamo davvero assistendo a una “guerra del petrolio”. L’accusa rivolta agli Stati Uniti è quella di “inondare deliberatamente il mercato” con il loro petrolio di scisto, ovvero quello estratto ricorrendo alla tecnica del fracking, che si è diffusa soprattutto negli Stati Uniti nell’ultimo decennio. Washington starebbe compiendo questa manovra per ragioni politiche, non perché è conveniente dal punto di vista economico.

Accettare la teoria del complotto significa pensare che il governo americano, per tutelare i propri interessi economici, farebbe meglio a interrompere il fracking riducendo la produzione e ritornando a un regime di abbondanti importazioni e prezzi del petrolio elevati. Ma per quale assurdo motivo?

Vi sarete accorti che sto dando per scontata la nozione (fondamentale nella teoria del complotto) secondo cui negli Stati Uniti le grandi decisioni economiche vengono prese dal governo di Washington. Naturalmente questo è ridicolo, ma in ogni caso non c’è bisogno di confutare quest’illusione per rispondere alla nostra domanda, quindi andiamo avanti.

La fratturazione idraulica (fracking) per estrarre petrolio e gas, soprattutto dalle formazioni di rocce scistose, risale al 1947, ma è stato lo sviluppo di tecniche economiche e affidabili per lo scavo orizzontale alla fine degli anni ottanta ad avviare la trasformazione dell’industria petrolifera statunitense.

Nel 2012 nei pozzi americani erano state effettuate più di un milione di operazioni di fracking, ma all’epoca la crisi Ucraina non era ancora prevedibile e i rapporti tra Stati Uniti e Russia erano relativamente buoni. Molti paesi esportatori di petrolio temevano che un aumento della produzione di petrolio e gas americano avrebbe ridotto le importazioni di Washington e di conseguenza i loro profitti, ma questo problema veniva considerato ancora come un effetto del meccanismo di domanda e offerta e non come la conseguenza di un complotto strategico.

Gli esportatori americani volevano guadagnare e l’amministrazione Obama era entusiasta all’idea che l’aumento della produzione interna di petrolio e gas potesse mettere fine alla dipendenza del paese dalle importazioni da nazioni instabili, tanto da concedere sgravi fiscali e addirittura finanziamenti diretti alle compagnie che usavano il fracking. Più o meno quello che farebbe qualsiasi governo di un paese produttore di petrolio.

La tesi secondo cui gli Stati Uniti avrebbero sviluppato il fracking per danneggiare la Russia è smentita dalla cronologia. Il fracking infatti stava già provocando un’impennata della produzione americana anni prima che Washington cominciasse a considerare Mosca come un nemico. Per quanto riguarda il Venezuela, il paese continua a essere il quarto esportatore di petrolio negli Stati Uniti in un momento in cui l’abbondanza di petrolio sul mercato permetterebbe tranquillamente a Washington di eliminare Caracas dai suoi fornitori.

Inoltre Obama non ha aperto i rubinetti delle esportazioni americane, cosa che provocherebbe un’ulteriore riduzione dei prezzi del petrolio. Gli Stati Uniti continuano a importare molto petrolio e non smetteranno di farlo per anni. Obama ha semplicemente autorizzato l’esportazione di un particolare tipo di petrolio ultraleggero che è in surplus sul mercato interno. Ne saranno esportati appena un milione di barili, e non prima di agosto.

Se è un complotto, insomma, sta andando avanti molto, molto lentamente.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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