13 maggio 2015 09:56
Il giornalista Seymour Hersh al festival del giornalismo di Perugia, il 1 aprile 2009. (Tania, A3/Contrasto)

“Quattro anni fa un commando di Navy Seals degli Stati Uniti uccise Osama bin Laden durante un raid notturno in un compound circondato da alte mura di cinta ad Abbottabad, in Pakistan. L’uccisione è stata il culmine del primo mandato di Obama, e un fattore fondamentale della sua rielezione”. Ma la versione ufficiale di quell’evento fornita dalla Casa Bianca è totalmente falsa e “potrebbe essere stata scritta da Lewis Carroll”, l’autore di Alice nel paese delle meraviglie. Lo afferma Seymour Hersh, uno dei più noti giornalisti investigativi statunitensi, in un lungo articolo sulla London Review of Books.

Seymour Hersh ha vinto il suo primo premio Pulitzer per un’inchiesta del 1970 sul massacro di My Lai, in Vietnam, e da allora – e per molti anni – è stato considerato un reporter di grande qualità, sempre ben informato, con fonti nell’intelligence e nell’esercito statunitense ad alti livelli.

Collaboratore del New Yorker fin dagli anni novanta, Hersh ha scritto le più importanti inchieste sulle torture nel carcere iracheno di Abu Ghraib (che anche Internazionale ha pubblicato in copertina, come altri suoi articoli). Ma perché questo scoop di Hersh non è sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo? Perché non ne parlano tutti? Perché i governi non smentiscono e le opinioni pubbliche non chiedono chiarimenti?

Molti giornalisti statunitensi hanno reagito criticando il metodo e il contenuto dell’inchiesta di Hersh. Il giornale online Quartz ha riassunto bene le principali differenze tra le due versioni dei fatti.

La versione ufficiale della Casa Bianca è che, dopo anni di inseguimenti e di ricerche, gli statunitensi sono riusciti a localizzare Bin Laden in Pakistan. E che una squadra speciale dei Seal, all’insaputa delle autorità pachistane e violando il territorio del paese amico, è arrivata ad Abbottabad e ha ucciso il capo di Al Qaeda (che ha cercato di difendersi), portando via il cadavere (che poi sarebbe stato gettato in mare dopo un rito funebre) e molti documenti utili.

Secondo Hersh, invece, l’intelligence pachistana aveva catturato Bin Laden fin dal 2006, e lo teneva nascosto ad Abbottabad, non lontano dall’accademia militare, con la complicità e il sostegno del governo saudita, per usarlo come arma di ricatto in negoziati futuri. Ma quando un alto ufficiale pachistano ha rivelato agli statunitensi la verità su Bin Laden, il governo di Islamabad ha proposto a Washington un accordo: voi organizzate un finto blitz per uccidere il capo di Al Qaeda e noi faremo finta di nulla. In cambio, l’amministrazione Obama avrebbe dato al Pakistan più aiuti militari e un ruolo più importante nel futuro dell’Afghanistan.

Questo è il tema fondamentale dell’articolo. Poi Hersh si dedica a smontare molti particolari della versione ufficiale, ma qui quello che interessa è il tema centrale e, soprattutto, il metodo. Come fa Hersh ad arrivare a queste conclusioni? E perché il New Yorker, il giornale per cui scrive da un quarantennio, non ha pubblicato l’articolo? Secondo Politico, il settimanale newyorchese non ha accettato l’articolo perché non sembrava sostenuto da prove credibili.

E in effetti altri colleghi sono d’accordo.

“L’articolo è affascinante da leggere, e illustra un vasto complotto americo-pachistano per organizzare un finto raid e anche per simulare uno scontro diplomatico ad alti livelli tra i due paesi per depistare l’opinione pubblica. Ma le sue affermazioni provengono fondamentalmente solo da due fonti, nessuna delle quali ha una conoscenza diretta dell’accaduto, entrambe in pensione, e una delle quali anonima. L’inchiesta è piena di contraddizioni interne e di incongruenze”, scrive Max Fisher su Vox. “Non ci sono prove documentali e le sue fonti sono limitate a una coppia di ‘consulenti’, a un ‘ufficiale in pensione ben informato’ e a un ex capo delle spie pachistane andato in pensione 23 anni fa. Se Hersh ha ancora i suoi famosi contatti nel mondo dell’intelligence statunitense, qui non si sono visti”.

“La storia è certamente sensazionale”, scrive il vicedirettore di Quartz Bobby Gosh, “ma è molto discutibile. E questo soprattutto perché (…) Hersh non risponde mai adeguatamente a una domanda che mina tutte le teorie del complotto: perché?”.

Anche le spiegazioni che Hersh offre sulle ragioni politiche dei pachistani, degli statunitensi e dei sauditi per una cospirazione di questo livello, non reggono all’analisi né dei comportamenti né della compatibilità tra mezzi e fini, sottolinea Quartz. Non si capisce, in altri termini, per quale ragione i protagonisti del complotto avrebbero dovuto fare quello che l’inchiesta imputa loro.

“L’articolo non può essere confutato perché non c’è abbastanza materiale da confutare”, scrive Jack Shafer su Politico. “Come i funzionari governativi che hanno inventato l’improbabile storia ufficiale di Abbottabad, lui vuole solo che i suoi lettori gli credano”. Ed è un peccato, continua appunto Shafer, proprio perché la versione ufficiale è contraddittoria e nasconde sicuramente molte zone d’ombra. Che questa inchiesta non solo non aiuta a dipanare. Anzi in qualche modo contribuisce ad avvalorare (a causa della scarsità di fonti e informazioni credibili, e a causa delle lacune nell’analisi) la ricostruzione agiografica ufficiale del film di Kathryn Bigelow, Zero Dark Thirty.

La situation room della Casa Bianca, a Washington, il 1 maggio 2011. Barack Obama e il suo vice Joe Biden, insieme al National security team, vengono aggiornati sulla missione per catturare Osama Bin Laden. (Pete Souza, Casa Bianca/Flickr)

Seymour Hersh non è nuovo a polemiche di questo tipo. “Negli ultimi anni i suoi articoli, che spesso evocano grandi complotti, hanno lanciato accuse sorprendenti e spesso inconsistenti, basate su prove scarse o lacunose e sulle dichiarazioni di anonimi ‘funzionari’”, scrive sempre Max Fisher su Vox.

Il caso più importante e più recente è quello delle sue inchieste sull’uso di armi chimiche in Siria, che ha avuto eco anche in Italia. I suoi due articoli (qui il primo) – anche in questo caso non pubblicati dal New Yorker, noto per la severità dei suoi fact checker – sono usciti in Italia su Repubblica (accompagnati da un commento di Barbara Spinelli, che considerando “accuratissima” la ricostruzione di Hersh, e forzandone alcune conclusioni, scrive che “c’è qualcosa di marcio in occidente e nella Nato”).

Il secondo articolo, in particolare, sosteneva che era stato il governo turco a organizzare l’attacco chimico del 21 agosto 2013 nella regione della Ghuta, vicino Damasco. Ankara, usando l’organizzazione jihadista Fronte al nusra, voleva far ricadere la colpa sul dittatore siriano Bashar al Assad, e provocare così un intervento statunitense contro Damasco. Si calcola che l’attacco abbia provocato centinaia e forse migliaia di vittime civili (le stime variano tra trecento e 1.800 circa).

Come racconta Vox, in questo caso le ricerche delle Nazioni Unite e quelle delle organizzazioni non governative sembravano però tutte indicare, più o meno apertamente, le forze fedeli al regime di Assad come responsabili dell’attacco chimico. E soprattutto il lavoro di inchiesta di Hersh su questo caso è stato sottoposto a verifiche critiche da molti colleghi, in particolare Elliot Higgins e Dan Kaszeta, due esperti del conflitto siriano e di armamenti.

Nonostante il tentativo maldestro di un grande reporter come Seymour Hersh, che oggi si definisce “vecchio ed eccentrico”, i tanti segreti di Abbottabad e della morte di Bin Laden rimarranno probabilmente tali, fino a quando qualcuno non li racconterà trovando documenti, fonti e prove per capire come sono andate le cose davvero.

La reazione ufficiale del portavoce della Casa Bianca all’articolo di Seymour Hersh.


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