12 settembre 2015 14:04
Il regista Zhao Liang alla Mostra del cinema di Venezia. (Stefano Rellandini, Reuters/Contrasto)

Venezia è l’unico dei tre importanti festival europei a dover fare i conti con un’altra manifestazione cinematografica, ancora più grossa per quantità di film presentati, che comincia negli stessi giorni. Ma nonostante la concorrenza con Toronto, che è cominciato già da due giorni e che provoca la fuga dal Lido di una buona fetta della stampa internazionale, il direttore della Mostra, Alberto Barbera, è riuscito a mettere insieme un buon concorso quest’anno.

Nessun fiasco, poche note stonate (tra questi Equals e The endless river), parecchie chicche (Anomalisa, El Clan, Per amor vostro, tutti e tre premiabili). Forse è mancato il capolavoro assoluto acclamato da tutti, ma quello che ha fatto colpo quest’anno è il sapiente mix fra titoli che si scelgono da soli per motivi di cast o di risonanza mediatica (A bigger splash, The danish girl, Beasts of no nation) e quei film ‘piccoli’ che dimostrano il calibro di chi seleziona.

Tra questi, Abluka (Furia), strano film turco sospeso fra realtà e delirio, ambientato nella periferia di Istanbul fra abbattimenti di cani randagi e netturbini assoldati da elementi deviati dello stato per setacciare i rifiuti alla ricerca di non si sa che cosa, con la possibilità che tutto questo sia solo il frutto del delirio paranoico dei due protagonisti. Uno di quei film che lascia una traccia anche se non ci capisci quasi niente: ma che sia una fiaba allusiva e onirica sulla Turchia di Recep Tayyip Erdoğan è poco ma sicuro. Mi è piaciuto anche Desde allá del regista Lorenzo Vigas, un piccolo film venezuelano su una storia d’amore fra un odontotecnico e un ragazzo di strada, anche per la presenza autorevole del cileno Alfredo Castro, l’attore-feticcio di Pablo Larrain in film come Tony Manero, Post Mortem, El Club. Nonostante qualche forzatura, è un dramma solido con un’amara svolta finale.

Barbera è riuscito anche ad aggiudicarsi due buoni film di registi affermati che ultimamente non hanno brillato: si tratta di Rabin, l’ultimo giorno di Amos Gitai e Remember di Atom Egoyan. Devo confessare che dopo troppe delusioni ho cominciato a saltare le nuove uscite del canadese Egoyan, ma sono contento di aver fatto un’eccezione questa volta perché Remember è un dramma di un certo spessore, con una sceneggiatura da dieci e lode. Una specie di Memento geriatrico, racconta la storia di un ex detenuto di Auschwitz, ormai affetto da demenza senile, che va alla ricerca del comandante nazista che ha sterminato la sua famiglia. Il film potrebbe aggiudicarsi il premio per la migliore sceneggiatura, ma credo che sia più probabile un riconoscimento per l’attore veterano Christopher Plummer, magistrale nel ruolo principale. In questo caso, il premio sceneggiatura potrebbe andare o ad Anomalisa, o a un piccolo, divertente commedia giudiziaria francese: L’hermine.

La vera novità di quest’edizione: la presenza in concorso di ben quattro film che fluttuano tra documentario, finzione e pura visione artistica

Il film di Gitai, invece, è un coinvolgente j’accuse sulla complicità di una parte della società e della classe politica d’Israele nel creare il clima che ha portato all’omicidio del primo ministro Yitzhak Rabin quasi vent’anni fa, per mano di un’estremista della destra ortodossa, dopo la firma degli accordi di Oslo. In un film che mescola il documentario con delle ricostruzioni drammatiche delle indagini, Gitai non risparmia neanche Benjamin Netanyahu, colpevole, secondo lui, di aver cavalcato opportunisticamente l’onda della protesta, prendendo il microfono anche durante dei raduni dove si brandivano cartelli che raffiguravano la testa di Rabin fra i reticoli di puntamento di un fucile.

Ed eccoci alla vera novità di quest’edizione della Mostra: la presenza in concorso di ben quattro film che fluttuano fra documentario, finzione e pura visione artistica. Quello di Gitai in realtà è quello più convenzionale, quello più vicino al documentario classico che integra dei passaggi ricostruiti da attori. Gli altri, più radicali nello sfidare i limiti del genere, sono Francofonia di Aleksandr Sokurov, Heart of a dog dell’artista musicale e multimediale Laurie Anderson, e il film cinese Behemoth.

Spenderò qualche parola su quest’ultimo perché secondo me ha buone possibilità di aggiudicarsi il Leone d’oro (sarebbe la seconda volta in tre anni che un documentario ‘alternativo’ vince il premio più importante). È un documentario visionario, liberamente ispirato dalla Divina commedia. In un susseguirsi di immagini forti, a metà strada fra cinema, fotografia e pittura astratta, il film narra la devastazione della vasta steppa della Mongolia in seguito al ‘miracolo’ industriale cinese, che ha trasformato i pascoli in enormi miniere di carbone a cielo aperto, in fonderie d’acciaio e centrali elettriche.

C’è qualcosa di Salgado nella visione del regista Zhao Liang, che è riuscito, nonostante i divieti delle autorità, a filmare i lavoratori immigrati schiavizzati dal ‘biemot’ industriale, un mostro che riempie i loro polmoni di carbone, conficca frammenti di ghisa nella loro pelle, tutto al servizio della concorrenza dei prodotti cinesi sul mercato internazionale. La parte più agghiacciante però viene alla fine, quando vediamo una città fantasma della Mongolia, una foresta di palazzi residenziali nuovi di zecca di venti piani, tutti vuoti, con i netturbini che girano per le strade deserte a raccogliere il rotolacampo che il vento porta dalla steppa. Dopo l’inferno delle miniere e il purgatorio degli ospedali dove i lavoratori usa e getta sono mandati a morire, questo simbolo del progresso che gira a vuoto sarebbe il paradiso, quella Metropolis utopica che i servi del sistema sono programmati per sognare.

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