19 giugno 2015 17:29
Kristian Thulesen-Dahl, leader del Partito del popolo danese, incontra i giornalisti dopo i risultati elettorali, a Copenaghen, il 18 giugno. (Linda Johansen, Polfoto/Ap/Ansa)

Il 18 giugno la politica danese ha subìto un piccolo terremoto alle elezioni politiche: dopo quattro anni di governo di centrosinistra il potere passa alla destra. Il giorno dopo il voto, la prima ministra Helle Thorning-Schmidt è dovuta andare dalla regina e ha dato le dimissioni, anche se il Partito socialdemocratico è ancora la principale formazione del paese. La sera prima aveva già annunciato che dopo dieci anni alla guida del partito avrebbe lasciato il suo posto. Il nuovo capo di governo sarà probabilmente Lars Løkke Rasmussen, segretario del partito liberale Venstre e già primo ministro dal 2009 al 2011.

La maggioranza su cui Rasmussen può contare è però molto risicata e dipende totalmente dal vero vincitore delle elezioni, il nazionalista Partito del popolo danese (Dansk Folkeparti, Df), di Kristian Thulesen-Dahl, che ha ottenuto un risultato storico diventando il secondo partito del paese e il primo nella destra e che quindi potrebbe pretendere la presidenza del consiglio. Ma non lo farà.

Il Df nasce negli anni novanta come movimento di protesta contro gli immigrati musulmani ed è costantemente cresciuto (tranne nel 2011) fino a conquistare 37 seggi sui 179 del parlamento danese. Negli ultimi anni il Df ha cavalcato l’antieuropeismo e trascinato tutto il dibattito sul progetto europeo verso una posizione simile a quella britannica, cioè meno integrazione e meno solidarietà europea.

Il Df preferirebbe offrire l’appoggio esterno a un governo Rasmussen invece di assumersi una responsabilità diretta. Sarà dunque un governo condizionato dalla destra populista e con un capo poco autorevole.

Rasmussen era già rimasto coinvolto in diversi scandali riguardanti l’uso disinvolto di denaro pubblico per spese private, e anche per questo Venstre ha perso il 7,2 per cento dei suoi elettori rispetto al 2011. Se vorrà governare, Rasmussen dovrà quindi avvicinare la linea del suo partito – storicamente il più europeista dei partiti danesi – a quella del Df. Cosa che sia Venstre sia il Partito socialdemocratico hanno già fatto negli ultimi anni, presi dall’ansia del sentimento popolare e incapaci di offrire una visione sul ruolo della Danimarca nell’Unione europea e sullo scopo dell’Unione stessa.

Invece di votare i finti xenofobi e i finti antieuropeisti, molti danesi hanno dunque preferito la versione originale. Una grande coalizione con i partiti tradizionalmente europeisti – come successo in molti altri paesi europei durante la crisi, in primis la Germania – sembra impensabile in Danimarca.

Dal 2003, quando l’allora governo di centrodestra – guidato da Anders Fogh-Rasmussen, poi diventato segretario generale della Nato – con un voto di maggioranza scelse di mandare le truppe in guerra in Iraq, la politica danese si è progressivamente polarizzata. Anche quel governo era appoggiato dall’esterno dal Df, ma all’epoca i rapporti di forza tra i partiti di destra erano diversi.

Oggi l’altro Rasmussen, Lars Løkke (ce n’è anche un terzo, Poul Nyrup Rasmussen, capo del governo dal 1993 al 2001 e poi presidente del Partito socialista europeo), non potrà limitarsi a dare qualche contentino ai nazionalisti in materia d’immigrazione. E in materia di politica economica c’è una differenza enorme tra i partiti di destra. Il Df vuole preservare e rafforzare lo stato sociale – e riservarlo il più possibile ai danesi bianchi – mentre gli altri partiti della maggioranza vogliono abbassare le tasse. In verità c’è solo consenso su una cosa: più galera per i delinquenti e introduzione di tribunali per minori.

Presumibilmente Rasmussen cercherà di convincere il Df a entrare nel governo per non rimanere perennemente sotto ricatto. Kristian Thulesen Dahl ha fatto capire che si venderà caro: “Il potere più grande non sta sempre nelle auto blu”, ha detto al circolo dei giornalisti di Copenaghen. “Noi ci mettiamo dove abbiamo più peso, e questo non significa automaticamente stare al governo”.

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