11 settembre 2009 17:19

“La differenza”, mi dice Paul, “è che insegnare in catalano è cool perché voi eravate gli oppressi quando c’era Franco, mentre insegnare in afrikaans non è cool, perché noi siamo stati gli oppressori durante l’apartheid”. Restiamo un attimo in silenzio. I suoi occhi azzurri vagano sulle colline illuminate dal sole invernale.

Paul è neurochirurgo, professore e viticoltore. Tutto sembra così calmo a Stellenbosch, un campus di case coloniali settecentesche di un bianco immacolato, circondato da vigneti che danno generosi vini sudafricani.

Eppure questa terra ha vissuto tanti drammi e tante ingiustizie che oggi gettano un’ombra sullo sforzo quotidiano della convivenza. Le identità contrapposte sono sempre state al centro del conflitto e si sono mescolate con il colonialismo, la schiavitù, lo sfruttamento e la lotta per la sopravvivenza.

I coloni che nel 1652 si insediarono nella futura Città del Capo arrivarono qui con l’onnipotente Compagnia olandese delle Indie Orientali per coltivare verdura, frutta e vino destinati alle navi dirette verso il sudest asiatico. Erano olandesi, ma anche ugonotti francesi e tedeschi. In questa terra trovarono degli indigeni nomadi, i khoi khoi, con cui prima commerciarono e che poi sottomisero.

Quando la colonia crebbe importarono schiavi dalla Malesia e dall’Africa e così nacque una società multirazziale in cui tutti i diritti erano riservati ai bianchi. Lontani dalla metropoli e organizzati intorno alla loro chiesa riformata, i coloni attaccarono le tribù più potenti dell’est, gli xhosa, il gruppo etnico a cui appartengono Nelson Mandela e Thabo Mbeki (ma non Jacob Zuma, che è zulù).

Gli afrikaner si stabilirono nelle fattorie e svilupparono una cultura e una lingua, l’afrikaans, derivata dall’olandese. Quando l’impero britannico conquistò Città del Capo, nel 1795, il suo unico interesse era difendere le rotte verso l’India, quindi lasciò intatta la società coloniale sovrapponendole una struttura amministrativa.

L’espansione verso est, però, causò molte guerre contro gli xhosa che spinsero gli inglesi ad arginare la brutalità degli afrikaner contro gli indigeni neri. Gli afrikaner, o boeri come li chiamavano gli inglesi, erano pochi e non avevano un altro posto dove andare: sentivano di appartenere a quel posto, quello era il loro paese.

Quando gli inglesi cominciarono a imporre le loro leggi, molti boeri decisero di ricominciare altrove. Nel 1836 migliaia di persone caricarono sui carri famiglie e averi e, con il fucile e la bibbia in mano, si diressero verso il nord e l’est, combattendo contro gli zulù e stabilendosi sui vasti altipiani del Transvaal, vicino a dove si trova ora Johannesburg.

Qui ricostruirono una comunità agricola con un suo autogoverno, ottenendo un’indipendenza di fatto.

Ma il destino volle che proprio in quelle terre si trovassero i grandi tesori del continente: oro e diamanti. Così nel 1867 gli inglesi cominciarono a interessarsi a quel territorio remoto. Per un certo periodo vissero insieme ai boeri, sfruttando il lavoro dei neri. Ma gli afrikaner si rifiutarono di accettare le leggi britanniche e nel 1899 si ribellarono. Ne seguì una guerra atroce in cui i soldati boeri a cavallo tennero in scacco per tre anni l’esercito imperiale.

Alla fine Londra inviò il più grande corpo di spedizione della sua storia, quasi mezzo milione di soldati, e applicò tecniche di sterminio, rinchiudendo in campi di concentramento donne e bambini afrikaner, con i loro schiavi neri. Circa 30mila afrikaner e altrettanti neri morirono in quei campi. Gli afrikaner si arresero, ma non dimenticarono e cominciarono una lunga marcia all’interno del sistema parlamentare britannico, usando la loro forza numerica: erano sempre il gruppo bianco più grande di quel territorio, e solo i bianchi potevano votare.

Fu così che nel 1948 il Partito nazionale afrikaans arrivò al potere e cominciò una politica sistematica di apartheid, cercando di creare un paese completamente bianco e confinando i neri in bantustan controllati dai bianchi. In queste aree non c’erano risorse e i neri erano costretti a emigrare come lavoratori temporanei nelle aree bianche, senza più diritti, senza le loro famiglie e senza la nazionalità sudafricana. Un po’ come l’immigrato ideale per molti europei di oggi: un lavoratore usa e getta, a cui si fa ricorso solo in caso di bisogno.

Fu contro quel regime ingiusto, la più spietata macchina segregazionista della storia, che si sollevarono i neri, i meticci, gli indigeni e migliaia di bianchi che non potevano accettare quella situazione. Dopo anni di lotta, nel 1994 Mandela e De Klerk (un afrikaner di Stellenbosch) negoziarono la democrazia e una riconciliazione.

Ma le ferite restano. Gli afrikaner – oppressi dai britannici e oppressori dei neri – hanno mantenuto la loro identità contro tutti e contro tutto, ma hanno infangato la loro storia. Paul non ha partecipato all’oppressione. Crede nel futuro condiviso del Sudafrica.

Ma quando si chiede in quale lingua devono essere le lezioni all’università di Stellenbosch (culla dell’élite afrikaner), gli sembra inevitabile stabilire canali di insegnamento paralleli, uno per ogni lingua e con curriculum diversi. Perché alla fine, mi dice Paul, mantenere la propria identità è possibile solo convivendo con gli altri.

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