12 maggio 2016 15:55

Sessantuno anni fa l’Ebu, ente radiotelevisivo europeo, s’inventò una gara di canzoni prendendo spunto da un giovane festival della canzone che si teneva da qualche anno in Italia, a Sanremo. Dai primi sette paesi dell’esordio, l’Eurovision song contest (Esc) ha aumentato il numero dei partecipanti fino a comprendere un’area che si estende da Capo Nord a Israele, dall’Islanda alla Russia e con l’Australia ospite per il secondo anno consecutivo.

In questa settimana i 42 paesi partecipanti, dai quali è stata esclusa recentemente la Romania per un debito di 14 milioni di euro da versare come quota associativa all’Ebu, si sfidano per la 61ª edizione della gara: il 10 e il 12 maggio le semifinali, il 14 maggio la finale (in onda le prime due su Rai4 e RaiRadio2, la finale su Rai1 e RaiRadio2).

L’Esc è nato nell’anno della Coppa dei campioni, il 1956: la prima finale si svolse a Lugano il 24 maggio del 1956; il 13 giugno, tre settimane dopo, il Real Madrid vinse contro lo Stade Reims a Parigi la prima Coppa dei campioni di calcio.

Dieci anni dopo sarebbe nato anche Giochi senza frontiere, manifestazione tra il ludico e lo sportivo, volta alla costruzione di uno spirito europeo energico e giovanile, che fino agli anni ottanta godette anche in Italia di una certa popolarità. Al contrario l’Esc, per anni, è stato poco trasmesso e poco seguito dai mezzi d’informazione italiani, concentrati da sempre su Sanremo, nonostante a idearlo sia stato il dirigente Rai Sergio Pugliese (per 14 anni non abbiamo proprio partecipato, per ritornare nel 2011 con Raphael Gualazzi). Peraltro l’Italia è tra i fondatori del festival (insieme a Francia, Germania, Regno Unito e Spagna) e per questo è sempre qualificata per statuto alla finale. Nella storia abbiamo vinto due volte, con Gigliola Cinquetti e Toto Cutugno, ma il risultato più clamoroso è il terzo posto di Domenico Modugno nel 1958 con Nel blu dipinto di blu. Negli ultimi tempi è stato il vincitore di Sanremo a rappresentare l’Italia, ma quest’anno gli Stadio hanno declinato, quindi tocca alla seconda classificata: Francesca Michielin, 21 anni, di Bassano del Grappa, già vincitrice di un’edizione di X-Factor.

Ai telespettatori italiani la competizione appare sempre vagamente tedesca

Sulle prime vedere l’Eurovision può fare uno strano effetto: non esiste una forma di gusto discutibile prodotta con altrettanta convinzione (leggi: budget di 35 milioni di euro per l’edizione viennese del 2015) e altrettanto successo (quasi 200 milioni di telespettatori). La competizione, che si svolge nel paese che ha vinto l’anno precedente, è cresciuta molto negli ultimi anni, e ai nostri occhi di telespettatori italiani appare sempre vagamente tedesca nell’estetica, anche se, come in questo caso, sono gli svedesi a organizzarla.

La scaletta delle serate, il tono ufficiale dei presentatori, la natura ingessata delle gag, lo sfarzo delle luci e l’orgia dei movimenti di macchina e degli effetti scenici: tutti questi dettagli ne fanno una trasmissione assurda e irresistibile. Non essendo l’Europa abituata a intrattenimento televisivo di regime, l’ossimoro di questo tono ampolloso e insieme festante risulta surreale. Le canzoni ovviamente non sono inedite, perché arrivano a rappresentare il proprio paese dopo un processo di selezione, quindi in genere il pubblico le conosce già e ha già visto anche un video.

Il televoto delle due semifinali e della finale, che si somma a quello di una giuria di esperti, si basa soprattutto sull’esibizione (voce dal vivo su base registrata) e sulla geopolitica.

L’islandese Greta Salóme si esibisce con il brano Hear them calling, il 10 maggio 2016. (Michael Campanella, Getty Images)

Nessun paese all’Eurovision può mai votare per il proprio artista. Questo principio geniale produce un Risiko delle alleanze che rende la finale di sabato un evento interessante anche sul piano politico e culturale. Se nelle semifinali alcune antipatie campanilistiche possono pesare, quando si viene al dunque valgono gli equilibri di parentela, di area linguistica, di forza. Le grandi aree di alleanza sono grosso modo le seguenti:

  • Scandinavia e paesi nordici in genere (attenzione alle repubbliche baltiche)
  • asse franco-tedesco
  • asse francofono (Francia, Belgio, Principato di Monaco)
  • Russia ed ex Unione Sovietica
  • penisola iberica
  • Balcani
  • paesi del Mediterraneo

Ci sono poi dei paesi storicamente molto liberi, come l’Ungheria o la Repubblica Ceca, ma sono capitati anche recentemente quei giochi di sponda che in italiano vengono definiti “biscotti”. Come per l’Onu, i piccoli paesi con pochi abitanti (Cipro, San Marino) possono avere un ruolo esorbitante nello spostamento dell’equilibrio di una votazione.

Si sta come un’orda di turisti alla cassa di un’area di servizio fuori Francoforte in agosto

A questo bisogna aggiungere che c’è un certo snobismo da parte della musica pop affermata nei confronti dell’Esc, per cui spesso gli artisti che si esibiscono sono un po’ baracconi all’origine. Infatti è facile che gli artisti siano personaggi pacchiani o comunque molto leggibili – Céline Dion si presentò a suo tempo per la Svizzera – e presentino brani gonfi di stereotipi, visto che i riferimenti culturali della platea sono troppo diversi per le sottigliezze. C’è la melodia italiana da cartolina, c’è il pop crucco con la cassa in quattro e i capelli abbondanti sul collo, ci sono le stangone del Caucaso con un ventilatore sparato in faccia, i gruppi finto-folk con i pantaloni corti, i depositari del rock con tatuaggi e orecchini come in un incubo di Guareschi. Si canta in qualsiasi lingua, ma se si canta in inglese è tutto love, sky, forever, tonight, together, facile da capire ovunque. È un’Europa vagamente parco a tema di se stessa, molto poco omogenea, poliglotta, unita con un filo di imbarazzo.

Si sta come un’orda di turisti in coda alla cassa di un’area di servizio meravigliosa appena fuori Francoforte in agosto. Inutile ribadire che non esiste un altro show televisivo così assurdo e realizzato con questa cura, quindi è il caso di guardare e votare sia questa sera sia sabato, sentendosi Stalin a Yalta dal proprio divano.

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