14 settembre 2016 16:59

Cos’è. Man in the dark, secondo lungometraggio di Fede Alvarez, il regista uruguaiano del remake di La casa, è un tipico thriller a basso budget con un’idea interessante, un cast con più buona volontà che esperienza, ambientazioni non troppo dispendiose. In versione originale il film si intitola Don’t breathe, non fiatare, e racconta di tre ragazzi di Detroit, di cui uno figlio del titolare di una ditta di sorveglianza domestica, quindi con le chiavi a portata di mano, che con una certa frequenza rapinano appartamenti. Questa volta decidono di entrare in casa di un invalido di guerra la cui figlia è stata investita e uccisa qualche anno prima, per cui ha ricevuto un risarcimento molto cospiscuo. L’uomo è cieco e vive in una villetta isolata. Ovviamente il colpo non si rivelerà facile come i ragazzi credono. I tre sono Jane Levy (La casa), Dylan Minnette (Prisoners) e Daniel Zovatto (It follows), mentre il reduce è Stephen Lang (Avatar).

Com’è. Il film è fatto di una cornice girata nella desolazione di Detroit prima e dopo il colpo, e di una parte centrale al chiuso che si svolge tutta nella casa (girata interamente a Budapest). I tre della banda si muovono su binari noti: uno è un bullo muscolare, lei è una ragazza madre ribelle, il terzo è il ragazzo educato che non vorrebbe partecipare ma si fa mettere in mezzo per amore. Il reduce che cercano di derubare è altrettanto evidente nella caratterizzazione: un uomo solo, pronto a tutto, vendicativo. Da un certo momento in poi il film prende una piega ossessiva e meccanica tipica di certi film di tortura alla Eli Roth, dove i pochi elementi in contrasto continuano a scontrarsi sempre più violentemente: silenzio e respiri, voglia di fuggire e lucchetti, buio e bagliori delle armi, avidità e sopravvivenza. C’è dell’altro ma non posso parlarne.

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Perché vederlo. L’ambientazione a Detroit funziona bene, così come alcuni snodi della trama. Gli attori se la cavano, anche se sono costretti a recitare in una griglia abbastanza prevedibile di volti terrorizzati nel buio e affanno trattenuto per non fare rumore. Se si ama lo spavento, il film ne fornisce una certa dose.

Perché non vederlo. Pur essendo imperniato su un meccanismo chiaro e potenzialmente efficace, il film non va oltre i binari più prevedibili dell’impianto. I pochi guizzi di scrittura o regia lasciano l’amaro in bocca. Il tentativo di lasciare intendere una qualche profondità sullo sfondo legata alla vita dei personaggi è realizzato male, cavalcando degli stereotipi senza crederci troppo. Si verifica così il fenomeno tipico dei thriller senza profondità psicologica o morale: non si parteggia davvero per nessuno, si osserva il nascondino e si aspetta che sia tutto finito.

Una battuta. Non è un po’ immorale derubare un cieco?

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