03 luglio 2012 08:54

Il 21 giugno la Cassazione ha emesso una sentenza importantissima. Ha condannato definitivamente quattro poliziotti a tre anni e sei mesi di carcere per aver ucciso, nel 2005, un ragazzo di diciotto anni la cui unica colpa era di aver dato in escandescenze. Ma oggi come allora il caso non ha trovato molto riscontro sui mezzi d’informazione nazionali. A parte il TG3, nessun grande quotidiano e nessun telegiornale ha parlato immediatamente della condanna definitiva.

 

Federico Aldrovandi è morto all’alba del 25 settembre 2005 a Ferrara. “Deceduto durante un controllo di polizia”: era questa la versione ufficiale. Il caso sarebbe andato verso la sicura archiviazione se non ci fosse stata la madre di Federico, Patrizia Moretti, che per anni si è battuta per fare emergere la verità. La verità di un’orgia di violenza contro un ragazzo che aveva sì opposto resistenza ai poliziotti, ma che era stato ben presto sopraffatto e ammanettato. Se non fosse stato per la strenua battaglia della madre il caso sarebbe rimasto un non-caso, ignorato da tutti.

 

Tanto più colpiva il silenzio generale dopo la sentenza della Cassazione: una sentenza che possiamo chiamare storica, dato che non se ne ricordano di analoghe negli ultimi decenni. Solo in un secondo momento i giornali sono tornati a parlarne: quando Paolo Forlani, uno dei quattro condannati, si è messo a pubblicare su internet insulti contro la mamma di Federico, tanto per far capire il suo rapporto a dir poco inquietante con la legge e la giustizia, dando l’idea plastica di un tutore dell’ordine che testardamente si ritiene al di sopra della legge, prima con l’omicidio, poi con le invettive contro la sua vittima e la madre.

 

Poliziotti che abusano del loro potere: anche la Germania è alle prese con un caso fin troppo simile al caso Aldrovandi. Sempre nel 2005, nella cittadina di Dessau, muore un giovane di 26 anni, Ouri Jalloh. Africano della Sierra Leone, viveva in Germania come rifugiato e aveva precedenti per spaccio. Una notte viene fermato perché in stato di ubriachezza avrebbe molestato alcune donne. Poche ore dopo muore nell’incendio scoppiato all’interno della sua cella. Secondo i poliziotti presenti nel commissariato era stato lui stesso ad appiccare il fuoco al suo materasso.

 

Ma il caso presenta molte stranezze. Jalloh era legato mani e piedi ed era stato perquisito attentamente. Nonostante tutto avrebbe avuto un accendino con sé e malgrado le manette sarebbe stato in grado prima di forare il materasso (che era rivestito di materiale anti incendio) e poi di dargli fuoco. Inoltre l’allarme aveva suonato immediatamente, ma il commissario non aveva pensato affatto ad accorrere alla cella, limitandosi a spegnere l’allarme. “Era rotto e già diverse volte nei mesi precedenti era scattato senza motivo”: questa è la sua versione. Jalloh è morto nell’incendio, ma l’autopsia rivela che aveva anche il setto nasale rotto e i due i timpani perforati. Quello che segue è una storia di reticenze e di depistaggi, di poliziotti che che cambiano versione, di riprese video della perquisizione della cella misteriosamente scomparse.

Se nel caso di Aldrovandi la giustizia fa il suo corso grazie alla tenacia della madre, nel caso di Jalloh è un comitato di profughi e di sostenitori tedeschi ad attivarsi nell’indifferenza quasi generale dell’opinione pubblica. In un primo processo il commissario è stato assolto, ma la corte suprema tedesca ha stracciato la sentenza. È ancora in corso il secondo grado del processo. Sarebbe auspicabile che la corte tedesca mostrasse la stessa determinazione, lo stesso coraggio della giustizia italiana.

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