07 giugno 2016 20:22

1. Fantastic Negrito, Working poor
Il nome, Xavier Dphrepaulezz, complicato come la sua vita; la pobreza, il meticciato, il talento; l’etichetta discografica che lo scrittura; e poi il disco – nel solco della musica alla Prince che gira intorno – è un flop. E poi l’incidente d’auto che quasi lo rovina. Poi fa figli, alleva galline, coltiva erba, se la fuma, riscopre il blues del Delta. E si ripiglia, con un nuovo beffardo nome d’arte e l’album The last days of Oakland. Musica artigianale, rauca, di cuore, spiritual dalla faccia sporca: il canto che tramuta la disgrazia in rinascita.

2. Arsène Duevi, Nyonu sciura
E poi c’è il maestro cantore e compositore togolese, che era il direttore del coro della cattedrale di Lomé e, una volta arrivato a Milano, ha debuttato al conservatorio. Il cui pubblico può averlo subito ispirato, e indotto a dedicare una ballata alla bella sciura ignota. Il resto è tutto da scoprire; l’album Haya/Inno alla vita contiene canzoni in italiano come anche in lingua ewè, citazioni di Bob Marley come di Fabrizio De André, ma soprattutto una musicalità solare e un gran lavoro di arrangiamenti vocali “ué Africa”!

3. Faris, Oulhawen win tidit
Evabbè, ormai il desert blues gira ovunque. Ma è da ascoltare questo chitarrista cresciuto in Emilia Romagna e maturato musicalmente nelle fila dei rocker tuareg originali. Imboccato il sentiero solista con l’album From Mississippi to Sahara, uscito nel 2015, prende vecchi inni blues e ne sposta le radici più in là, dal delta alle dune in punta di dita e di canto gutturale. Ben Harper e i Calexico lo adorano e quest’anno, tra i concerti di Reggio Emilia (casa sua) e Pordenone (gran festa tuareg) va a suonare a Chicago, Seattle, New York.

Questa rubrica è stata pubblicata il 2 giugno 2016 a pagina 88 di Internazionale. Compra questo numero| Abbonati

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