Nel Racconto del giardiniere capo di Anton Čechov un assassino deve essere giudicato da un tribunale. Le prove sono evidenti: ha ucciso il medico della città, un sant’uomo dedito al prossimo e ammirato da tutti, solo per rubargli l’orologio. Un delitto devastante e superficiale. Il giudice sta per leggere il verdetto, ma non ce la fa: non può ammettere che un essere umano sia capace di un atto così disumano. La città intera preferisce esultare per l’innocenza dell’assassino e pensare che il medico sia morto cadendo in un burrone. Vogliono tutti credere che in fondo l’essere umano sia buono. Il giardiniere che racconta la storia si chiede se sia meglio punire un criminale e condannare gli esseri umani al sospetto sul prossimo, o liberarlo e riportare la fiducia in città. Forse l’assassino stesso, sorpreso dalla sua liberazione, si guarderà intorno con speranza. Sono sulla metropolitana all’ora di punta mentre penso a questo racconto: intorno a me uomini e donne scorrono sui telefoni notizie terribili. Osservo i volti, cerco l’incredulità di cui parla Čechov: davvero l’essere umano è capace di cose così terribili? Quanto dobbiamo essere diffidenti? Urlano forte assassini e guerrafondai, ma noi che leggiamo notizie di guerra e desideriamo la pace, che non vogliamo rubare orologi né perpetuare l’orrore, perché parliamo così poco? Penso alla voce che chiude un film di Ėlem Klimov: “Eppure credo che l’uomo sia buono. Quando nasce è bellissimo”.

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Questo articolo è uscito sul numero 1561 di Internazionale, a pagina 14. Compra questo numero | Abbonati