25 gennaio 2017 13:15

Ci sono due immagini che simboleggiano questo inizio di 2017 e che resteranno nella storia: da un lato Donald Trump con il pugno alzato il giorno del suo insediamento a Washington, dall’altro il presidente cinese Xi Jinping che sorride di fronte ai massimi rappresentanti dell’economia mondiale riuniti a Davos, in Svizzera.

Per chi si fosse distratto: è a Pechino, e non a Washington, che l’ultimo grande partito comunista del pianeta è ancora al potere, mentre il Forum economico di Davos è stato fondato per celebrare e promuovere il capitalismo globalizzato e targato “made in Usa”.

Eppure i ruoli non si sono invertiti. Trump resta sostanzialmente un capitalista, di tendenza nazionalista e protezionista. Invece Xi, nonostante tutta la benevolenza che ha mostrato a Davos, dove è stato il primo presidente cinese a intervenire, non è diventato il portabandiera del libero scambio. E se lo ha fatto è solo in nome degli interessi cinesi, non di una globalizzazione liberista alla quale Pechino si sarebbe convertita.

Le esportazioni come elemento di sviluppo
Piccolo richiamo storico: quando Deng Xiaoping, il grande leader cinese dell’era postmaoista, indirizzò la Cina verso la strada di “riforme e apertura” quasi quarant’anni fa, lo fece per pragmatismo, nel tentativo di recuperare il tempo perduto negli anni d’incertezza ideologica. La Cina, che era rimasta fuori dalle precedenti rivoluzioni industriali dell’Asia (prima in Giappone, poi in Corea del Sud, a Taiwan, a Singapore e così via), si è trovata in una posizione favorevole per sfruttare l’ondata successiva.

Nella seconda metà degli anni novanta, e soprattutto dopo la sua adesione all’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001, la Cina è diventata la “fabbrica del mondo”, ovvero la destinazione preferita degli investimenti diretti stranieri, una terra di delocalizzazioni, esternalizzazioni e produzione di massa per il resto del pianeta.

L’elezione di un presidente protezionista negli Stati Uniti arriva troppo presto per la Cina

La Cina si è trovata nel cuore del vortice della globalizzazione, non per conversione ideologica, ma per la necessità di creare posti di lavoro, di far uscire una parte della sua popolazione dalla miseria, di finanziare il più grande esodo rurale della storia e la costruzione su grande scala d’infrastrutture urbane. Ma anche per dare una nuova legittimità a un partito comunista indebolito dai grandi traumi del 1989.

Le esportazioni sono diventate un elemento chiave del modello economico cinese, toccando il 36 per cento del pil nel 2006 a fronte del 5 per cento nell’epoca maoista (negli Stati Uniti è il 12 per cento). Dopo la crisi finanziaria del 2008, che ha fatto sprofondare nella crisi i grandi mercati d’esportazione della Cina (Stati Uniti, Europa o Giappone), questa quota è progressivamente diminuita, arrivando al 21 per cento del pil nel 2015, mentre il governo tentava di promuovere il consumo interno come motore della crescita.

L’elezione di un presidente protezionista negli Stati Uniti arriva troppo presto per la Cina di Xi Jinping, che si trova nel mezzo di una difficile transizione verso un nuovo modello di sviluppo. La crescita cinese, in doppia cifra durante il primo decennio del secolo, è scesa a meno del 7 per cento nel 2016, mentre il Fondo monetario internazionale prevede un “modesto” 6,5 per cento nel 2017.

Il libero mercato della Cina
La Cina ha bisogno di stabilità e fiducia in questo periodo, soprattutto visto che quest’anno si terrà il congresso del Partito comunista cinese nel quale Xi spera di consolidare il suo potere, sistemando i suoi uomini nei posti chiave in vista del secondo mandato.

Trump toglie a Xi questa stabilità internazionale, tanto più che ha fatto della Cina il bersaglio preferito (insieme al Messico e, in misura minore, alla Germania) della sua campagna di nazionalismo economico aggressivo.

Xi non ha altra scelta che prendere in contropiede Trump, facendosi portavoce del libero mercato, del commercio senza barriere e dell’apertura alle multinazionali, che il nuovo presidente statunitense vuole obbligare ad abbracciare lo slogan “l’America prima di tutto”. Xi ha fatto felice il suo pubblico a Davos paragonando il protezionismo all’“isolarsi volontariamente in una stanza senza luce”.

La piega presa dagli eventi obbliga la Cina ad adattarsi a un nuovo mondo, minacciato da guerre commerciali

Ma anche se ha rassicurato i manager presenti a Davos rifiutando la retorica guerresca di Trump, il presidente cinese non è diventato, come hanno proclamato alcuni commenti affrettati, il campione del liberismo economico.

La Cina rimane un paese rigidamente controllato e regolamentato, dove lo stato è, ed è destinato a rimanere, il principale attore economico. Gli investitori stranieri si sono resi conto a loro spese che l’apertura sulla quale facevano affidamento nei primi anni duemila, dopo l’ingresso della Cina nel Wto, non c’è stata ed è anzi in regressione.

Basta leggere i rapporti annuali delle camere di commercio statunitense ed europea in Cina per rendersi conto che la concorrenza sul mercato cinese non è aperta in tutti i settori, che la “preferenza nazionale” è la regola, e che la Cina difende i suoi interessi nazionali molto più vigorosamente rispetto ai suoi partner o concorrenti.

È per questo motivo, in particolare, che Pechino tarda a ottenere lo status di “economia di mercato” che sperava di ricevere dagli Stati Uniti e dall’Unione europea e che, visto il clima attuale, dovrà attendere ancora per un po’.

La piega presa dagli eventi obbliga la Cina ad adattarsi a un nuovo mondo, minacciato da guerre commerciali e dal ritorno alle barriere doganali e ai blocchi commerciali regionali più o meno aperti.

Questa pressione internazionale potrebbe tuttavia rivelarsi favorevole alla Cina, perché rischia soprattutto di accelerare la mutazione del suo modello economico e di renderlo più autosufficiente, come le permettono le sue dimensioni continentali e le sue ramificazioni in paesi terzi in Asia, Africa e America Latina, facendolo allontanare così dai mercati occidentali meno accoglienti.

A Davos, Xi ha ostentato una serenità che nasconde indubbiamente alcune inquietudini di fronte all’aggressività dell’uomo con il pugno alzato di Washington. La sfida che sta iniziando non era stata prevista dagli strateghi della Cina, a cui però non mancano gli strumenti per uscirne rafforzata, o addirittura vincitrice.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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