28 ottobre 2020 16:08

Nell’evoluzione dei decreti economici varati dal governo anche i nomi sono importanti. Il decreto “ristori”, approvato all’inizio della seconda ondata del nuovo coronavirus, arriva dopo il primo ed emergenziale “cura Italia”; il più tecnico “decreto liquidità”, di aprile; lo speranzoso “decreto rilancio”, di maggio; l’anodino “decreto agosto”.

In tutto, più di cento miliardi per far fronte alla più grande crisi economica della storia dell’Italia moderna. Una quantità di risorse mai consentita da quando le regole di bilancio europee sono entrate nella nostra costituzione finanziaria.

L’evoluzione terminologica segue quella del virus e dell’umore del paese che, dopo il primo slancio per affrontare l’emergenza (solidarietà e cura) e un’apertura al futuro (il rilancio), si ripiega a tamponare le ferite presenti e future (i ristori).

I numeri
Il conto delle misure varate dal governo italiano per far fronte all’emergenza covid-19 va aggiornato continuamente. Il decreto cosiddetto ristori, varato il 27 ottobre, con i suoi 5,4 miliardi, va ad aggiungersi ai precedenti, il cui costo complessivo è riepilogato nell’ultimo bollettino della Banca d’Italia: 103,6 miliardi, di cui 86,9 di maggiori spese e 16,7 di minori entrate.

Prima dell’ultimo decreto le spese si suddividevano così: 9,2 miliardi per il servizio sanitario, 35,3 per le famiglie, 26,2 per le imprese, 13,2 per enti territoriali, scuole e università, più 2,7 per altri microinterventi.

Il nuovo decreto prevede un nuovo contributo a fondo perduto alle attività penalizzate dal dpcm del 18 ottobre, alcune sospensioni fiscali per le stesse attività (come quella sulla seconda rata dell’Imu, la tassazione sugli immobili di proprietà), la proroga di sei settimane della cassa integrazione di emergenza e il blocco dei licenziamenti fino al 31 gennaio 2021.

Per sedare la rabbia delle categorie il governo punta sulla promessa di far arrivare i soldi il 15 novembre

Importante novità è nel metodo di calcolo dell’indennizzo per le imprese, che sarà crescente in relazione al grado e alla durata della chiusura: partendo dalla base di quel che avevano avuto con il primo lockdown, l’indennizzo sarà del 400 per cento per discoteche e sale da ballo, del 200 per cento per ristoranti, cinema, teatri, palestre, piscine, sale giochi, circoli ricreativi; del 150 per cento per bar, gelaterie, pasticcerie, alberghi (compensati per il crollo del turismo); del 100 per cento per taxi e Ncc.

Un’altra novità è l’abolizione del tetto di fatturato, dato che in precedenza sopra i cinque milioni di volume d’affari non si aveva diritto all’aiuto: adesso anche le grandi aziende dei settori colpiti rientrano nel cosiddetto ristoro, calcolato sulla base della variazione di fatturato rispetto allo scorso anno ma con un tetto massimo all’aiuto.

Infine, la principale novità su cui il governo punta per sedare la rabbia delle categorie: la rapidità dell’intervento, con la promessa di far arrivare i soldi in banca il 15 novembre a chi già aveva avuto i fondi del decreto cosiddetto rilancio.

Il terziario fragile
L’elenco dettagliato delle attività interessate con i relativi coefficienti, anticipato dal Sole 24 ore, sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale a breve, ed è affidato ai codici Ateco, che abbiamo imparato a conoscere dai tempi della prima ondata di covid-19.

Scorrendolo, ogni gestore di attività saprà se deve moltiplicare per 4, per 2 o per 1,5 il contributo avuto negli scorsi mesi, oppure se riceverà la stessa somma. Quell’elenco è anche una fotografia di una parte importante della nostra economia, con produzioni diversissime (dalle sale bingo all’arte, dal ristorante all’associazione culturale di quartiere) che però hanno qualcosa in comune: sono tra le più colpite dalla chiusura e dalle altre restrizioni previste dal nuovo dpcm, appartengono quasi tutte al settore terziario, e inoltre hanno una grande fragilità economica, condizioni di lavoro molto flessibili e una forte presenza di precariato e sommerso.

Come si può vedere in un grafico riportato da lavoce.info, hotel, bar e ristoranti sono stati tra le categorie più colpite dal covid-19, solo un gradino sopra quella del trasporto aereo: fatto pari a 100 il quarto trimestre del 2019, il fatturato di questo settore nel periodo aprile-luglio 2020 è sceso a 28,5. Insomma, il giro d’affari si è ridotto di quasi tre quarti. Per la produzione di film, spettacoli e musica, la riduzione è stata di almeno un terzo. Va detto che nello stesso periodo il prodotto interno lordo italiano è sceso del 13 per cento, dopo un meno 18 per cento del primo trimestre.

La riduzione dei consumi è stata superiore a quella del reddito, non solo per povertà ma per prudenza

La vulnerabilità di questi settori non è dipesa “solo” dalle chiusure e dal distanziamento, ma anche dalla riduzione di spesa degli italiani. Un dato spesso trascurato – tra i tanti negativi che ci stanno sommergendo – è il segno “più” davanti all’indice della propensione al risparmio degli italiani (ossia la quota di risparmio sul reddito), che dall’8,1 per cento del 2019 è schizzata al 13,3 per cento nei primi tre mesi del 2020 e al 18,6 per cento del secondo trimestre.

La riduzione dei consumi è stata superiore a quella del reddito, e questo – come testimonia anche un’indagine rapida sulle famiglie fatta da Banca d’Italia – non solo per povertà ma per prudenza, e per mettere da parte risparmi in vista di un futuro incerto.

L’Eurostat rileva che è successo lo stesso ovunque. Nell’area dell’euro la propensione al risparmio è salita al 24 per cento: vale a dire che su quattro euro guadagnati uno è stato messo da parte. E si può supporre che in molti casi questo sia stato fatto rinunciando sia al pane (fuori casa) sia alle rose, ossia alle spese per consumi culturali o ricreativi.

L’economia non osservata
Qualsiasi industria, sotto un colpo del genere, potrebbe crollare. Quella del trasporto aereo sta ricevendo sostanziosi aiuti di stato e presenta la fondamentale differenza rispetto ad altre di essere fatta da grandi aziende, da colossi mondiali. L’economia del tempo libero è invece fragile e fatta di piccole attività ovunque, ma sopratutto in Italia. Il settore dei bar e ristoranti ne è un esempio lampante. Un rapporto della Fipe di fine 2019 riepiloga lo stato del settore: pur esaltando il ruolo della ristorazione e il suo peso sul pil – “il terzo mercato della ristorazione in Europa dopo Regno Unito e Spagna”– non può negarne i punti deboli, a partire da una produttività bassa, ancora più bassa di quella che affligge il resto dell’economia (il rapporto è 59 a 100).

Un’industria che avrà pure le sue eccellenze, ma con una struttura povera e un lavoro poverissimo: un tasso di ricambio velocissimo, con la metà delle imprese che chiude entro i tre anni; su 1,2 milioni di occupati, solo il 38 per cento lo è a tempo pieno. Uno su cinque è straniero, la metà donne. In maggioranza si tratta di occupazioni con qualifica bassa (800mila gli operai, circa 74mila gli “apprendisti”) e di impieghi part-time.

Un altro rapporto, quello dell’Istat sulla cosiddetta economia non osservata, dice che questo settore è in prima linea nell’universo del sommerso: che è fatto di attività non dichiarate o parzialmente dichiarate, dunque di molto lavoro nero. L’economia “non osservata”, che in media pesa per il 12 per cento del valore aggiunto, nei casi di “commercio, trasporti e ristorazione” arriva secondo l’Istat al 22,8 per cento.

Questa realtà renderà molto difficile le riaperture per attività che già vivevano al margine della sostenibilità e solo grazie alla presenza di lavoro povero, pagato poco e spesso non in regola (completamente o parzialmente). Ma, soprattutto, ora rende difficile raggiungere con i cosiddetti ristori tutti quelli che ci vivevano, dato che la cassa in deroga, così come gli indennizzi, sono parametrati a quel che era dichiarato.

Come per altri settori della nostra vita sociale ed economica, la pandemia mette a nudo fragilità preesistenti; ma potrebbe anche essere un’occasione per porvi rimedio, tornando alla parola del primo decreto (“cura”), coniugando la rapidità dei trasferimenti immediati con una strategia di interventi strutturali.

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