28 gennaio 2015 15:55

Quando ho saputo che PJ Harvey voleva registrare il suo nuovo album in un box di vetro, di fronte a un pubblico pagante, ho avuto un brivido. E non di trepidazione, ci tengo subito a precisare, ma di assoluto e autentico terrore. Mio Dio, ho pensato, è questo che ci aspetta? È questa la logica evoluzione dell’album in crowdfunding, con tutti i suoi extra personalizzati? Dalle bonus track alle magliette firmate ai concerti privati, è questo che ci aspetta? Vendere non solo il disco finito, ma ogni momento del processo produttivo?

Poi, però, ho scoperto che in questo caso non si tratta di un espediente commerciale o di una trovata pubblicitaria, ma di un’opera d’arte. Polly registrerà alla Somerset House di Londra, dietro un falso specchio, e l’idea è trasformare quello spazio in una “scultura sonora multidimensionale e cangiante”. Per il prezzo del biglietto potrete guardare e ascoltare solo per 45 minuti, fra le tre e le sei del pomeriggio dei giorni feriali, e dovrete accontentarvi di quel che passa il convento: potrebbe anche non succedere niente.

Come è già stato scritto, PJ non è la prima a farlo: è stata preceduta dalla band australiana Regurgitator, che nel 2004 ha registrato un intero album in pubblico, filmando e trasmettendo ogni istante. Essere guardati per 24 ore su 24, come nel Grande fratello, fa dimenticare la presenza delle telecamere: dopo un po’ si finisce per lasciarsi andare ed essere se stessi. Farsi guardare solo per tre ore è meno reale e più simile a una performance. Mi ricorda un po’ quei terribili pomeriggi in cui arrivavano in studio i dirigenti della casa discografica e dovevi farti vedere tutto preso a suonare qualcosa che somigliasse a un singolo.

Comunque, le apparizioni di Polly hanno fatto registrare il tutto esaurito, confermando quello che ho sempre pensato: alla gente piace credere che la musica sia qualcosa di magico, e vuole sbirciare di nascosto per assistere al miracolo in corso. In realtà, si tratta di un evento potenzialmente demistificante, ma l’entusiasmo del pubblico nasce dall’idea che tutto quello che fa un artista interessante sia interessante e degno di attenzione. E che abbiamo il diritto di vedere tutto quello che fa.

Sono all’antica, lo so, ma penso ancora che essere artisti significhi prima di tutto essere dei bravi editor: sapere che cosa tenere e che cosa tagliare, che cosa mostrare e che cosa nascondere. Odio l’approccio del collezionista completista, che vuole ascoltare ogni singolo demo, ogni versione lasciata a metà. Quando Ben e io abbiamo scelto i brani per le versioni deluxe dei nostri vecchi album, siamo stati spietati nei giudizi, arrivando spesso alle stesse conclusioni a cui eravamo arrivati la prima volta. Quasi sempre i pezzi sono stati scartati per il semplice motivo che non erano abbastanza buoni. Ed è così che dovrebbe essere, credo.

Oggi come oggi è più difficile impedire la diffusione online di materiali incompiuti o scartati: basti pensare a Madonna e ai suoi recenti demo piratati. La registrazione di PJ Harvey è uno spettacolo, non un furto. Eppure, mi ricorda tutti gli altri modi in cui il pubblico cerca di avvicinarsi all’artista, chiedendo sempre più intimità e sempre meno filtri al suo lavoro. La pop star moderna è avvicinabile come non lo è mai stata prima: il che è piacevole finché si tratta di chattare su Twitter, ma molto meno quando devi sporgere reclami per lettere e pacchi inviati direttamente a te. In momenti come quelli ripensi con nostalgia ai vecchi tempi del mistero e dei manager.

Quindi, per quanto io adori PJ Harvey, non voglio andare a vederla registrare. Mi sembra che ci sia qualcosa di degradante: gente che la fissa imbambolata, con il naso premuto contro il vetro. In più, è molto probabile che quello che vedranno saranno 45 minuti di un cavo che non funziona, una tazza di tè, un’asta da microfono che pende, uno sgabello della batteria che cigola e un tecnico che cerca di individuare la fonte di un sibilo misterioso.

Ma la mia vera obiezione è un’altra, ed è molto più personale. Lo studio è il mio rifugio: un luogo segreto, privato, dove il fatto stesso di non poter essere vista è fonte di forza e ispirazione, ed è quello che mi consente di fare il mio lavoro fino in fondo. Una volta ho fatto un provino chiusa dentro un armadio. E sapete che ha fatto ora Polly Harvey? Ha semplicemente sfondato quelle maledette porte.

(Traduzione di Diana Corsini)

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