08 marzo 2017 17:20

Un paio di settimane fa mi sono imbattuta in un documentario di Bbc4 intitolato Property is theft (La proprietà è un furto) sullo squatting, l’occupazione di immobili a cavallo degli anni settanta e ottanta. Straordinari filmati di repertorio di Villa Road a Brixton si alternavano a interviste girate oggi agli ex occupanti, che rievocavano quel periodo segnato da fanatismi e ideologie. Imbottiti di teoria e determinati a smantellare la famiglia nucleare e a rifiutare la società capitalista, il popolo degli squatter era un affascinante mix di idealismo e follia.

La loro tesi di fondo – che la casa è un diritto fondamentale e uno dei principali fattori di disuguaglianza – resta valida ancora oggi. Hanno abitato edifici destinati alla demolizione e li hanno salvati. Un appartamento di tre stanze in uno di quegli stabili oggi vale più di mezzo milione di sterline. Con buona pace della rivoluzione che ritenevano imminente.

Ma altri aspetti della loro teoria e della loro pratica erano troppo di nicchia per prendere piede, troppo puristi per adattarsi alle contraddizioni umane. Le condizioni in cui vivevano gli squatter erano piuttosto squallide, cosa che probabilmente scoraggiò le famiglie operaie che sognavano una vita migliore. E così alla fine la comunità era composta essenzialmente da giovani laureati molto politicizzati e in prevalenza bianchi, mentre i rastafariani se ne stavano per conto loro, dall’altra parte della strada.

Il femminismo rivoluzionario
Guardando quei filmati, il passato appariva strano e insieme familiare. Quasi sentivi l’odore degli anni settanta: lo sformato di lenticchie e il patchouli, l’erba e gli asciugamani bagnati, tutto condito da una bella dose di teorie bislacche, palazzi interi che praticavano l’urlo primario.

Sono rimasta incollata allo schermo, e ho scoperto che il documentario era il primo di una serie intitolata Lefties, realizzata da Vanessa Engle nel 2006. Ho aspettato invano che trasmettessero la seconda parte, ma alla fine l’ho trovata su YouTube. Intitolata Angry wimmin (Donne arrabbiate) racconta la storia della nascita del femminismo rivoluzionario alla fine degli anni settanta, e anche questa è piena di cose fantastiche.

Si apre con Sheila Jeffreys che canta una versione rivisitata di Diamonds are a girl’s best friend – “Men grow bald as they grow old / And they lose all their charms in the end / Alla men are wankers / said Christabel Pankhurst / Wimmin are a girl’s best friend” (Gli uomini diventano calvi invecchiando / e alla fine perdono ogni fascino / Tutti gli uomini sono dei coglioni / diceva Christabel Pankhurst / Le donne sono le migliori amiche di una ragazza) – e poi passa a raccontare di quando le femministe uscirono dal movimento socialista, dichiarando che le donne sono una classe in sé e che “il nemico è il maschio!”.

Ci sono scene di donne sedute intorno a un falò, che fanno il segno della vagina con le mani, in tenuta da karate che seguono corsi di autodifesa o in tuta che fanno bricolage, usando sega e martello, felicemente senza uomini. Quelle donne raccontano come l’eliminazione del suffisso men trasformò la parola women in womben o più comunemente wimmin, che ben presto cominciò a essere usato in senso spregiativo.

Ricordo che nei primi anni ottanta i genitori di Ben tenevano l’invito a una festa del commediografo John Osborne in bella vista sulla mensola del camino: alla fine c’era scritto No wimmin. Già allora mi faceva infuriare.

Il coprifuoco imposto alle vittime
A volte la politicizzazione del linguaggio si spingeva un po’ oltre, fino a richiedere che invece di “Oh dio!” si dicesse “Oh dea!”. Il separatismo portò alcune ad aprire case per sole donne, che venivano prese in giro dai ragazzi del quartiere: una volta un vicino imbucò una sua foto nudo nella cassetta delle lettere, in una specie di trolling analogico ante litteram.

La violenza maschile spinse le donne di Leeds a fondare il movimento Women against violence against women. Erano gli anni dello squartatore dello Yorkshire. A quei tempi vivevo a Hull, abbastanza vicino da sentire il brivido della sua presenza, e ricordo le manifestazioni Reclaim the night (Riprendiamoci la notte), e il risentimento nei confronti della polizia che consigliava alle donne di non uscire da sole dopo il tramonto, imponendo di fatto un coprifuoco alle vittime anziché ai carnefici.

Il documentario finisce con Vanessa Engle che chiede a quelle donne se sono ancora femministe rivoluzionarie, e molte lo sono: per lo più lavorano nel campo della violenza domestica. Poi una di loro chiede a Vanessa se si definirebbe femminista. Dopo un attimo di perplessità, lei risponde: “Sì, ho sempre pensato di esserlo, ma oggi nessuno me lo chiede più”. Ridendo, concludono che oggi le femministe “sono una specie in via di estinzione”.

Be’, questo lo vedremo.

(Traduzione di Diana Corsini)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.

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