17 aprile 2016 12:26

Dice un proverbio tuareg: “Entrare nel mare è facile, ma è difficile uscirne”. Di sicuro il mondo si divide in due: chi ha paura di partire e chi ha il terrore di tornare; chi non si decide mai a farlo e chi ha problemi a smettere. Faccio parte della seconda categoria: tornare da sempre mi angoscia, destabilizza, fa deperire. Non ho mai compreso a fondo le motivazioni di chi desidera tornare a casa mentre è ancora in movimento, senza essere preso da un senso di vertigine. Non parlo tanto di turismo, quanto di viaggi. Tuttavia in generale ho detestato fin da bambina l’idea del tornare, anche dopo un semplice weekend al mare, forse traumatizzata dalla citatissima frase di Andrea Pazienza: “Mai tornare indietro, nemmeno per prendere la rincorsa”.

A proposito di gente che progetta il proprio ritorno nel pieno del proprio viaggio mi viene sempre in mente la protagonista di Mangia, prega, ama (Rizzoli 2013), forse il libro di viaggio più venduto degli ultimi anni: una donna che, dopo aver divorziato dal marito ed essersi messa in viaggio verso l’oriente, scopre il piacere del cibo e l’amore per la spiritualità. Fin qui tutto bene (la donna è poi l’autrice stessa, Elizabeth Gilbert, e nell’adattamento cinematografico una impacciatissima Julia Roberts). In uno dei momenti clou del racconto la donna, che sta meditando in un ashram indiano, un luogo bellissimo e meta di pellegrini da tutto il mondo, comincia a pensare: dove vivrò quando sarò tornata a casa? Potrei affittare una casa lì o vivere là, potrei tornare nella mia città o trasferirmi, e così via.

Chiedo lumi a Elena Sacco, la mia guru. Ex viaggiatrice estrema, autrice di un piccolo libro ormai di culto, Siamo liberi, e molto conosciuta in rete come Barcalinga, Sacco è per me l’eroina del ritorno: una donna che ha scelto di fare ritorno a Milano (a Milano!) dopo sette anni di vita fuori dagli schemi, lasciandosi in sostanza alle spalle la Polinesia per l’Italia. Intanto Elena Sacco pensa che uomini e donne usino il viaggio in modo diverso: i primi vanno in cerca di un altrove, per poi ricreare lì le stesse dinamiche di prima; le seconde viaggiano più per comprendere se stesse e il mondo che le circonda. Che la preoccupazione del ritorno sia una prerogativa femminile? Non direi. La storia della letteratura mi smentisce fin dalle sue origini: Ulisse conosceva bene il “dolore del ritorno”. L’Odissea è in fondo la storia di un ritorno, anche quantitativamente: i libri che la compongono dedicati al viaggio sono pochissimi rispetto a quelli itacesi e, come spiega Matteo Nucci in Le lacrime degli eroi, è a Itaca che si svolge metà del poema omerico e a Itaca è “chiaro quanto sia forte il dolore che si soffre quando si desidera tornare a casa e si scopre che quel ritorno è a pieno titolo impossibile”.

Tornare è così difficile che a volte l’unico modo per riuscirci è scrivere

Nulla è più difficile del ritorno, e non solo per me, a quanto pare. Così difficile che a volte l’unico modo per riuscirci è scrivere. A volte essere costretti a tornare – come accadde per esempio a Karen Blixen che lasciò la sua Africa per ragioni economiche – è la molla dolorosa, ma terapeutica, che fa esplodere la creatività. Blixen nel 1931 tornò in Danimarca a malincuore, ma lì scrisse La mia Africa e Sette storie gotiche. Tornata a casa, divenne una scrittrice. Molti marinai, esploratori, scalatori, avventurieri raccontano di essere riusciti a scrivere solo dopo essere tornati. Erling Kagge, uno dei più famosi esploratori viventi, il primo uomo a raggiungere da solo a piedi il Polo Sud, autore di Filosofia per esploratori polari, ha detto: “Il gesto più coraggioso che ho fatto è aver scelto di tornare e passare più tempo con le mie figlie: loro sono in un certo senso il mio terzo Polo”. Coraggioso anche solo a pensarlo.

Un esperto di ritorni è Fredrik Sjöberg, l’entomologo-scrittore de L’arte di collezionare mosche, un libro di viaggi da fermo. “Dopo tredici mesi di viaggi intorno al mondo ero finalmente sulla via del ritorno, stanco e disilluso. Addirittura a terra”, scrive. “Certo, poi avrei dovuto salvare la faccia. Non era difficile: seguito con il dito sulla carta il mio viaggio era impressionante. Ma dentro di me non ne ho mai capito il senso”. Sjöberg è convinto che i viaggi siano sopravvalutati, allo stesso tempo però sembra ossessionato dalla storia di un famoso e misconosciuto viaggiatore, René Malaise, sulle gesta del quale torna in tutto il corso del suo stravagante libro. È l’eterna ambivalenza del viaggiatore: da un lato è spinto ad andare lontano da casa, ma appena arriva soffre perché desidera ritornare. “Non avete avuto paura? Che cosa vi ha spinto a partire?”, è la domanda più frequente che si sentono fare i viaggiatori da parenti, amici e curiosi. Penso che a volte sia proprio la paura di farlo.

Jasper James, Getty Images

Elizabeth Gilbert nel suo ultimo libro, Big Magic, prova a raccontare da dove nasce la creatività. Il libro sciorina per duecento pagine una serie di americanissime banalità. Però c’è una questione fondamentale che Gilbert sottolinea: paura e creatività sono connesse, anzi sono “gemelle siamesi”, infatti chi non ha paura o chi la rimuove non si realizza creativamente. Come diceva Mark Twain, il coraggio non è l’assenza di paura. “È vero”, mi dice Elena Sacco, “anche io ho avuto paura , sia di partire che di tornare, perché sapevo che mi sarei sempre sentita straniera ovunque, però sono partita lo stesso”.

Con lo sguardo rivolto all’indietro

“Molla gli ormeggi, Jim, siamo liberi!”, gridava Hucklberry Finn, uno dei più archetipici e simpatici viaggiatori della letteratura americana. Ma il ragazzo non si riferiva a una libertà esistenziale, o non solo. “Siamo liberi!” è l’espressione usata dai marinai per comunicare a chi sta al timone che non ci sono più ostacoli, “che nulla più trattiene la barca a un punto fermo, e niente collega il suo equipaggio agli individui terreni”. Come scrive Elena Sacco nel suo libro Siamo liberi. Sette anni in barca e l’avventura del ritorno. E s’intuisce già dal sottotitolo che il suo è un racconto che parla anche e soprattutto delle difficoltà del ritorno. Ritorno alla “normalità” milanese con i due figli, ragazzini che raramente si sono messi le scarpe e parlano tre lingue straniere. Ma siamo sicuri che Milano sia la normalità e la Polinesia il paradiso?

Elena mi racconta che quando un’agente letteraria le ha proposto di raccontare la sua storia, lei ha detto subito che non sarebbe interessata a nessuno: chi vuole un libro di viaggio che parla almeno per metà del ritorno? “In questo senso la mia è stata davvero un po’ un’odissea. Andavo avanti, ma sempre con lo sguardo rivolto all’indietro. Il mio è stato un viaggio rotondo. Anche perché sono partita senza lasciare nessun riferimento: ho ceduto l’attività, chiuso l’ufficio e venduto la casa. Mollato davvero l’ultima cima. Poi sono tornata”.

“Il viaggio di ritorno, ora lo so, aveva una meta”, scrive Elena Sacco. “Capire che le avventure hanno mille orizzonti – non certo tutti tropicali – e che il meglio non è altrove, il meglio è uno stato d’animo. Un coraggio consapevole di ciò che posso vivere qui e ora con quello che ho, immaginando il futuro come qualcosa di plasmabile nelle mie mani. Non lo avrei sperimentato se non fossi partita, non lo avrei capito se non fossi tornata”.

Oggi, passeggiando per un sentiero sperduto nella valle umbra dove vivo ho incontrato un uomo – chiaramente cittadino d’aspetto e modi – con un bastardo di segugio al guinzaglio. Dico: che bel cane, come si chiama? Itaca, mi risponde il padrone. “È scappata dall’agriturismo e non voleva più tornare”. Allora ho sorriso e mi è tornata di colpo in mente la poesia di Costantino Kavafis:

Itaca t’ha donato il bel viaggio.
Senza di lei non ti mettevi in via.
Nulla ha da darti più.

E se la trovi povera, Itaca non t’ha illuso.
Reduce così saggio, così esperto,
avrai capito che vuol dire un’Itaca.

Forse è tutto già qui, in questa famosa poesia il senso del viaggio (e della vita). Bastava rileggerla per capire qual è la vera ricchezza del viaggio, cosa bisogna aspettarsi dalla nostra Itaca, quanto dobbiamo esserle riconoscenti, perché Itaca è più lo stimolo che non la destinazione finale. Perché il paradiso non esiste. Il paradiso può essere Milano. Perché, come dice la mia guru, il vero viaggio è il ritorno.

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