15 ottobre 2016 10:40

In occasione di catastrofi che ci riguardano un po’ più da vicino, siamo presi da un desiderio estemporaneo di aiutare il prossimo e ci affanniamo magari a spedire qualche soldo ai bisognosi, assillati dal dubbio: ma che fine faranno i miei due euro per i terremotati di Amatrice?

La sfiducia negli enti di beneficenza, soprattutto istituzionali, è ormai diffusa e generalizzata. A volte è una sfiducia irrazionale perché sono davvero tante le associazioni, soprattutto quelle che agiscono dal basso, e lavorano nella totale trasparenza; ma talvolta è comprensibile, alla luce, per esempio, di quello che è accaduto all’Aquila.

Qualche tempo fa, in Umbria, dove vivo, è scoppiato lo “scandalo dei cassonetti gialli”, quelli dove si buttano i vestiti che non usiamo più. Invece che alla Caritas o ad altre associazioni di beneficenza sembra che questi nostri vecchi stracci andassero nelle mani di loschi individui che li rivendevano al mercato dell’usato. Per molto tempo nella mia cittadina nessuno ha più portato gli abiti nei cassonetti gialli, poi qualcuno ha ricominciato. Da allora preferisco darli direttamente a chi ne ha bisogno, quando posso.

I meccanismi della fiducia
Se da un lato è diffusa questa diffidenza un po’ astratta verso gli enti, dall’altra abbiamo molta più fiducia nel singolo individuo: realtà come Blablacar o Couchsurfing o Airbnb, con un numero sempre crescente di utenti, hanno cambiato il nostro modo di avere relazioni e di viaggiare (e anche l’economia, se è per quello).

Mentre Blablacar è quotata in borsa e Airbnb vale 30 miliardi ed è pronta per la quotazione, secondo Entering the trust age, lo studio realizzato dalla New York university Stern insieme a BlaBlaCar e basato su 18mila persone di undici paesi europei, emerge che la gente si fida “delle persone che appartengono alle loro stesse community online quasi quanto si fidano degli amici e dei familiari”.

Insomma, in un mondo in cui andiamo statisticamente più volentieri in auto con uno sconosciuto che a fare due chiacchiere con il vicino di casa, come possiamo aiutare davvero il prossimo?

Sono persone che hanno trasformato la loro vita in un viaggio quotidiano: un viaggio verso l’altro

Oggi si dice che i “viaggi solidali” siano diventati una moda: mete alternative, insolite, “autentiche”, mescolanza di esotismo e impegno. Come si fa a unire viaggio e voglia di aiutare gli altri? Come si possono unire due idee apparentemente inconciliabili come vacanza e volontariato?

Sono tantissime le proposte nel web e non è facile districarsi tra le mille offerte di viaggi solidali, vacanze etiche, volontariato all’estero. Esistono innumerevoli associazioni o addirittura agenzie che organizzano vacanze anche di poche settimane, come la torinese Viaggi solidali che lavora in questa direzione da più di dieci anni. Tra le associazioni e le ong sembra che proprio tutti propongano “viaggi solidali”: si va dalle Nazioni Unite ad Amnesty international, da the7interchange a International volunteer; da progetti italiani come quelli di Libera, Mani tese, Lunaria ad altri internazionali come Camps international o il Servizio volontario europeo. Ci sono anche organizzazioni di scambio come Wep (World education program) o Afsai (Associazione per la formazione, gli scambi e le attività interculturali) o altre come Helpstay o Yearout. Molte di queste associazioni si fanno pagare, alcune come, per esempio, ProjectsAbroad o GoAbroad hanno prezzi davvero scandalosamente alti (fino a tremila euro!), altre non richiedono alcuna esperienza, nemmeno in campo sanitario.

Viaggiare con audacia e generosità
Ci sono anche quelle che non vogliono i volontari, ma solo donazioni, mentre altre cercano operatori qualificati e stipendiati. Proprio in occasione del devastante terremoto del Nepal nel 2015 una giornalista del Guardian si domandava: “Che valore può avere il volontariato turistico – volonturismo in breve – per gli enti di carità e le ong? Secondo Sallie Grayson, direttrice di People and places, gli effetti del ‘volonturismo’ possono essere buoni se gestiti in modo responsabile. Il problema non è nel concetto, ma dipende dall’organizzazione che spedisce i volontari all’estero. Molte agenzie sono guidate dal profitto e lavorano per soddisfare le richieste del volontariato più che della beneficenza. E il risultato è che le persone sono messe a lavorare su progetti che non c’entrano nulla con le loro competenze”.

Volontari puliscono le strade dalle macerie a Sankhu, in Nepal, dopo il terremoto che ha colpito il paese il 25 aprile del 2015. La foto è stata scattata il 9 maggio 2015. (Turjoy Chowdhury, NurPhoto/Getty Images)

Da qualche tempo seguo le imprese di alcuni viaggiatori generosi e audaci, “etici”, come si dice oggi, che hanno imparato strada facendo ad aiutare gli altri e lo hanno fatto quasi sempre per caso o per soddisfare un’iniziale esigenza di spaesamento.

E magari il “volontariato” lo facevano già in Italia, magari con il vicino di casa. Sono persone che hanno trasformato la loro vita in un viaggio quotidiano: un viaggio verso l’altro; le loro storie aprono delle possibilità interessanti e possono diventare un modello di apertura, un vero e proprio modello di sharing life. Sono storie di persone normali, non di cooperanti o lavoratori del terzo settore, partite alla volta di paesi sconosciuti spesso spinte solo dalla voglia di conoscere: c’è chi poi ne ha fatto una scelta di vita e chi è ancora in viaggio e continua questa scoperta di sé attraverso l’altro.

“Ho superato il mio dolore attraverso il dolore degli altri”, mi racconta Vincenzo Cherubino, 36 anni, napoletano, tanti mestieri alle spalle, l’aria e il carisma di un moderno pellegrino francescano: “Io mi affido al viaggio. Anche perché non ho nulla da perdere, non possiedo niente, non ho un lavoro fisso. Parto e vado ad aiutare chi ha bisogno di me. Non so cosa voglio, io cammino”.

Cherubino ha appena ricevuto il premio Enrico Toti nella sezione Viaggi ed esplorazioni. La motivazione dice: “Per essere portatore dei valori fondamentali della solidarietà, della condivisione e della comunione, che si manifestano in una vita vissuta insieme al prossimo”. Dopo aver lavorato a Manaus con i bambini di strada insieme a due missionari italiani, ora è in partenza per Capo Verde, per l’isola di Fogo, dove andrà a offrire il suo aiuto a padre Ottavio Fasano, un missionario attivo nelle isole da più di 40 anni. “Non so se il mio è proprio volontariato. So che lo faccio anche qui in Italia tutti i giorni. Se vedo qualcuno per strada che ha bisogno di parlare lo ascolto o lo abbraccio. E così facendo aiuto anche me stesso”.

Viaggiare è una scuola di umiltà, scriveva Claudio Magris

Antonio Di Guida, blogger e fotografo di Italianbackpacker, ha 26 anni e viaggia da un paio d’anni in Asia, in Africa e in Australia. Antonio ha fatto due esperienze di volontariato che gli hanno aperto un mondo, anche se è certo di non voler fare il cooperante da grande, ma vuole una famiglia sua.

Stanco della routine e desideroso di esperienze forti, Antonio è a Malindi in Kenya quando si imbatte in una piccola onlus italiana, Africa Milele, e trascorre un mese a lavorare in un orfanotrofio. Poi continua il suo viaggio e in Cambogia conosce un monaco che gestisce una scuola per bambini e decide di prestare il suo servizio come insegnante di inglese: “Un’esperienza che mi ha insegnato tanto, eppure ero io l’insegnante… Aiutare senza avere nulla in cambio, se non un sorriso! Lo consiglio a tutti, è come buttarsi nel vuoto. Da dove cominciare? Andare in un luogo in cui vogliamo vivere, conoscere la gente del posto, informarsi e poi prendere la propria strada da soli, senza nessun aiuto di associazioni che magari chiedono soldi”.

Viaggiare è una scuola di umiltà scriveva Claudio Magris. Paola Pedrini è una quarantenne originaria di Piacenza, giornalista di viaggi, e dopo tante esperienze in India e altre ancora in Africa, ora opera stabilmente con una onlus di Torino e ha preso anche un titolo di operatrice sociosanitaria. Viaggiare aiutando gli altri per lei “è fonte di ricchezza infinita, uno stile di vita. Mi appartiene e non ci posso fare niente. Si fa anche per se stessi. Quello che ricevo in cambio sono alcuni giorni pugni nello stomaco, altri il sorriso di un bimbo che può tornare a casa. Ricevo cultura, tradizioni, arte, rapporti umani semplici ma profondi. Non è come un viaggio dove ‘passi accanto’”.

Paola ha fatto la sua prima esperienza a Calcutta sette anni fa (che si può leggere in Gli angeli di Calcutta, edizioni Polaris): “A Calcutta sono andata a mie spese, non ero con nessuna associazione. Questo è quello che prevede lavorare con le missionarie di Madre Teresa. Si può scegliere, per qualcuno è più rassicurante appoggiarsi e pagare, soprattutto per le prime esperienze. All’inizio mi è capitato di pagare per aiutare, oggi non lo farei, mi sembra un grande controsenso. Anche perché essere davvero di aiuto in certe situazioni è molto impegnativo, soprattutto se si resta per molto tempo. L’associazione con cui lavoro, la Domus, è piccola e molto trasparente. Siamo pochi, molto uniti, ognuno mette a disposizione una parte di sé”.

Pare che un giornalista americano vedendo Madre Teresa lavare un uomo coperto di piaghe avesse esclamato: “Non lo farei per un milione di dollari!”. E che lei sogghignando gli ripose: “Nemmeno io”. Molte associazioni, anche importanti e conosciute, oggi pretendono soldi in cambio della possibilità di “un’esperienza solidale”.

“Per principio io non pago per aiutare”, mi dice Marzia D’Ascenzo, con un sorriso di quelli che bucano anche lo schermo di Skype. “Si dovrebbe fare ‘volontariato’ anche e soprattutto con il vicino di casa. Io prima di partire facevo la spesa a due signore anziane e andavo in ospedale a dare una mano”. Marzia ha 36 anni, è architetta, in Italia lavorava in uno studio, sottopagata. Due anni fa è partita e non è più tornata. Ha visitato la Spagna, ilPortogallo poi il Nepal, l’India, la Cambogia.

In Sri Lanka doveva fermarsi un mese e invece è rimasta un anno a lavorare in un orfanotrofio, dove è arrivata tramite un amico che sostiene l’istituto economicamente: “Non c’era alcuna organizzazione dietro. Ma c’era tantissimo bisogno di qualsiasi cosa: dall’insegnare inglese ai bambini a rifare il sistema fognario. Un’esperienza che non è stata semplice volontariato, ma una scelta di vita e di condivisione completa, sono diventata parte di questa grande famiglia. Questa esperienza mi ha insegnato a tornare ad avere un po’ di pudore. Per la serietà che ci metto, per me è stato quasi un lavoro non retribuito e a volte molto pesante psicologicamente. Non è un passatempo. Non è un modo di risparmiare soldi. È un donarsi completamente all’altro. Il senso del mio viaggio è proprio questo, far capire che, chiunque, può contribuire a cambiare il mondo anche con piccole azioni giornaliere”.

Francesca Di Pietro, psicologa e travel coach, autrice di viaggiaredasoli.net (45mila follower su Facebook), viaggiatrice e ora impegnata lei stessa a promuovere viaggi etici (il prossimo in Sudafrica), me la spiega così: “Durante il viaggio avviene una contrazione temporale sul processo di cambiamento. A casa si hanno tanti blocchi, tante cose da fare, in viaggio tutto diventa più veloce, fluido. In viaggio si fa prima ad arrivare al nucleo. Inoltre, durante i viaggi in paesi del terzo mondo ci sorprende la semplicità delle azioni: il fatto che le persone siano felici per cose che per noi sono insignificanti”.

Nel suo libro Come viaggiare da soli Di Pietro dedica una parte al volontariato, con molti consigli anche pratici: essere umili, fare i conti con le proprie aspettative, leggere libri sui paesi in cui si va e anche sul tema dello sviluppo e ricordarsi che “fare volontariato è sempre un’esperienza forte, toccante, infinitamente gratificante, ma a volte può essere più forte di quanto ci si aspetti”. Morale: forse non esistono i viaggi solidali, esistono i viaggi. “Non si tratta di vivere, ma di partire”, diceva Isabelle Eberhardt. E in fondo travel ha la stessa radice del francese travail, lavoro; in italiano travaglio è una parola che associamo al parto. Travel, travail, travaglio: viaggiare è di per sé fatica, lavoro, rinascita. O almeno dovrebbe.

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