09 dicembre 2015 12:52

Questo è il mio primo ricordo. Mi hanno insegnato a spegnere le candeline sulla torta per il mio primo compleanno e non faccio che esercitarmi. Sto con la testa incollata sul vetro freddo della finestra (sono nato a dicembre) di un appartamento al terzo piano di un brutto palazzo di Ţiglăriei, un quartiere della cittadina di Caransebeş. Fuori è tutto grigio, e l’unica cosa interessante è il fuoco debole di due copertoni che bruciano a una trentina di metri di distanza. Soffio forte, sempre più forte, per cercare di spegnerlo, ma senza successo. Mia madre ride e mi prende in braccio. Continuo a soffiare invano, ma sono felice. Ho due anni.

Il secondo ricordo. Sono su una cavalla enorme. Ha un buon odore, come è normale, è calda e si muove – mi dicono – come solo i cavalli sanno fare. Sono aggrappato alla sua criniera e mi piace come mi culla. Viste dall’alto, dal dorso di Reta, le baracche sembrano ancora più piccole e infossate nel terreno. È stato mio zio Nini a mettermi in sella a questo gigante: sono suo nipote e devo imparare a cavalcare, come ogni rom che si rispetti. Ovviamente non ho sella né briglie. Il sole sta per tramontare e Reta si dirige lentamente verso nonna e nonno, che stanno in tutta calma su due sedie mezze rotte piazzate al centro della strada. Sono entrambi scalzi.

Il terzo ricordo riguarda il villaggio di Budrea, dove sono nate mia madre e tutta la sua famiglia. Indosso scarpe nere di vernice. Ho la camicia e i pantaloni. Mamma è vestita come se dovesse andare al compleanno del presidente: ha un vestito bruttissimo, da donna pia ma un po’ rivoluzionaria. Ce ne stiamo vicino al cancello della casa di Nini, come due damerini. Tutto intorno, i miei cugini e gli altri bambini del quartiere giocano mezzi nudi e indiavolati con il pallone che mi hanno fregato.

Tutto intorno si parla gitano. Ci provo anche io, ma ricevo uno scappellotto da mia madre, che mi dice di comportami da persona civilizzata

Nini ha indosso solo un paio di pantaloni lerci e guarda di sottecchi mia madre, che cerca di darsi un tono dignitoso e da signora di città. Forse ci riesce, perché Nini non la insulta. Tutto intorno si parla gitano. Ci provo anche io, ma ricevo subito uno scappellotto da mia madre, che mi dice di comportami da persona civilizzata. Finisco per distruggere le scarpe di vernice giocando a pallone in un campetto con le porte segnalate da due mucchietti di cacca di cavallo secca. Mamma è furiosa e zio Nini mi protegge, così non prendo botte.

Bevo il latte direttamente dalle mammelle della capra, dormo accanto ai cani e mi prendo le pulci, mi riempio il sedere di lividi buttandomi giù dalla collina accanto a casa su un sacco di plastica. Do retta a mio cugino e cerco di rifarmi la pettinatura pregando la mucca di darmi una leccata sui capelli, ma non ci riesco e mi innervosisco. Alla fine mi metto del sale in testa e la vacca si convince a leccarmi, tra lo stupore dei parenti e l’invidia dei bambini.

Quando mi viene fame, la nonna mi dà un po’ di pane e di formaggio e mi manda in giardino a prendere un pomodoro. Mi sono costruito una spada con una pannocchia, e quando salgo in sella a Reta immagino di battermi con dei draghi giganti. Imparo a portare l’acqua con i secchi e mi sento utile. Dormo accanto al forno, perché sono il preferito dei nonni, tra l’invidia dei cugini e delle cugine. Zio Nini mi lascia condurre i buoi e prendermi cura di loro, cosa che mi fa capire i privilegi dell’aristocrazia.

Ricordo il senso di disperazione che mi prendeva quando dovevo tornare nel nostro brutto palazzo

Ricordo come sedevo sul prato accanto ai buoi: non desideravo altro. E ricordo il senso di disperazione che mi prendeva quando dovevo tornare nel nostro brutto palazzo a Caransebeş, con mio padre ubriaco che ci chiamava zingari. Ricordo la confusione che avevo in testa cercando di capire la differenza tra essere romeno e zingaro.

Da allora sono passati più di quarant’anni. E non ho smesso di cercare di spegnere fuochi, ma ora lo faccio più da vicino. A volte rischio di sputare fuori i polmoni per quanto mi sforzo. E capita anche che invece di spegnere il fuoco, finisca per attizzarlo e per bruciarmi. Quando va tutto male, mi viene voglia ancora di sentire mia madre che ride e mi prende in braccio.

Budrea non è cambiata molto. La baracca dei nonni è ancora al suo posto. Zio Nini ha ancora i cavalli. A volte mi capita di sognare di essere in sella a un cavallo imponente, mi aggrappo bene ma so anche che prima o poi dovrò scendere.

Nel sonno combatto ancora con ogni genere di creature orrende e ogni tanto rido come un pazzo, immaginandomi oggi, grande e grosso in sella a Reta, in mutande con la mia spada di pannocchia in mano mentre mi batto contro burocrati e politici inetti e arroganti.

Per mia mamma vestirsi da signore significa indossare un vestito e delle scarpe, possibilmente di vernice

Raramente – ma succede ancora – quando torno a casa al tramonto mi aspetto di trovarmi di fronte i nonni. Guardo la foto in cui stanno fieri in mezzo alla strada, nei loro abiti migliori e con i piedi scalzi.

I miei cani non hanno le pulci. Gli metto il collare antipulci e li vaccino. Nini pensa che sia impazzito, ma non dice nulla, perché sono il suo nipote intelligente, quello che fa non si sa bene cosa, ma sicuramente qualcosa d’importante, con dei gagé stranieri.

Mamma vuole ancora che mi vesta sempre “come un signore” ed è convinta che vada in giro vestito “come uno zingaro”. Vestirsi da signore per lei significa indossare un vestito e delle scarpe, possibilmente di vernice, e avere la barba appena fatta. Per lei il segno supremo di distinzione è il papillon. È stata lei a comprare a mio figlio il suo primo vestito “da signore”, quando lui aveva sette anni. L’ha messo una volta sola, per fare una fotografia. Deve avere il mio stesso gene dell’ineleganza.

Ma soprattutto sono ancora confuso sulle differenze tra romeni e rom. Ho pensato a un test per distinguere chiaramente e rapidamente i due gruppi: si mette della musica, alternando cantanti zingari, come Guţă e Salam, a interpreti di musica tradizionale romena, come Ion Dolănescu. Quelli che cantano e accennano passi di danze tradizionali ascoltando quest’ultimo, se non sono ubriachi o impazziti, sono dei veri romeni. Gli altri, quelli che ballano al ritmo del manele in modo quasi strafottente, sono dei veri rom. Il problema è che la grande maggioranza dei cittadini romeni non sa ballare affatto. Oppure balla con entusiasmo in entrambi i casi.

(Traduzione di Mihaela Topala)

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano romeno Dilema Veche.

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