22 aprile 2015 15:20

Intanto un mistico, forse un aviatore, inventò la commozione.
E rimise d’accordo tutti, i belli con i brutti.
(L. Dalla, Com’è profondo il mare, 1977)

Anche la disperazione impone dei doveri, e l’infelicità può essere preziosa.
(Csi, Linea Gotica, 1996)

Secondo Aby Warburg ogni epoca conosce “il rinascimento dell’antichità che si merita”. Parafrasandolo, possiamo dire che ogni decennio conosce il discorso pubblico sul 25 aprile, sul fascismo e sull’antifascismo che si merita.

Il confronto con il ventennio e con la lotta di liberazione, infatti, per la memoria italiana del novecento è una pietra angolare sulla quale fondare ogni ragionamento sul rapporto tra sfera pubblica e storia.

Il discorso sulla dittatura, quello sulla resistenza così come quello sull’antifascismo si costruiscono innanzitutto attraverso i mezzi di comunicazione popolari come cinema e televisione. E – nelle pubbliche commemorazioni – svolgono un’azione perturbante rispetto alle memorie culturali: tendono a creare artificiosi momenti di condivisione, anche quando invece nell’essenza stessa della storia di questi due termini, resistenza e antifascismo, prevale un elemento di lacerazione. Come ha scritto Paolo Pezzino:

Se il 25 aprile ricorda gli italiani che hanno combattuto, questo purtuttavia non annulla le ‘altre’ memorie: di chi ricorda di aver combattuto contro la resistenza e il movimento partigiano […]; di chi, proclamandosi e sentendosi ‘apolitico’, ha tentato di ‘sopravvivere’ barcamenandosi tra partigiani e fascisti; di chi ricorda non ‘la’ Resistenza ma la ‘sua’, a volte parzialissima, resistenza e di chi, infine, non vuole ricordare e non vuole che si ricordi. Dunque, memorie diverse che tendono a solidificarsi e ad autoavvalorarsi

Un “noi diviso”, un’identità frammentata e segmentata che viene approfondita dal cinema e dalla ricerca storiografica mentre la comunicazione di massa, così come le commemorazioni ufficiali, tendono a eluderla, in un primo momento, a partire dai primi anni sessanta, in nome di un antifascismo presentato come universale; quindi nel segno di un’uniformità nel lutto provocato dalla guerra per cui tutti i “morti sono tutti uguali”, discorso che caratterizza gli anni novanta.

Su questi primi cinquant’anni di celebrazioni Giovanni De Luna e Guido Chiesa hanno fatto un bel film, s’intitola 25 Aprile. La memoria inquieta. Vedetelo qui: vale la pena per capire concretamente questi passaggi.

Infine attraverso l’invenzione di una guerra di liberazione senza antifascismo (che corrisponde, da un punto di vista dialettico, alla fortunata defascistizzazione della figura di Mussolini operata negli anni cinquanta da scrittori come Indro Montanelli). Resistenza senza antifascismo: come nei primi anni cinquanta, quando, sul Partito comunista italiano e sul contributo dato alla nascita della repubblica, si abbatte, nelle pubbliche celebrazioni, la scure ideologica della guerra fredda.

A questa resistenza senza antifascismo, categoria dello spirito, più che fatto storico, si ascrivono in modo perfetto e lineare gli spot di palazzo Chigi lanciati ufficialmente il 17 aprile insieme all’hashtag #ilcoraggiodi.

Vediamo di cosa si tratta. È una campagna messa a punto dal governo per celebrare i settant’anni dalla fine della guerra e dalla liberazione: in un video compare il pilota Alex Zanardi, in un altro l’astronauta Samantha Cristoforetti, per esempio. I testi sono scritti da Antonio Scurati, e – montati da Giovanni Veronesi, che ne cura la regia, sui repertori girati dagli alleati – rievocano i giorni della liberazione, soprattutto di Firenze, accompagnato da una Bella ciao malinconica, appena accennata da un pianoforte. La liberazione è un regalo alle generazioni che verranno, un atto di fede più che di rottura, un imperativo morale più che storico. E, prima di ogni altra cosa: la liberazione è un racconto commovente.

Il racconto commovente
“La lotta di liberazione è il racconto commovente di persone illustri o comuni che con il loro coraggio, credendo in un avvenire migliore lo resero possibile. Non sappiamo cosa hanno provato, ma noi siamo l’avvenire che ci hanno donato”, questo il testo che possiamo ascoltare nello spot di lancio della campagna #ilcoraggiodi.
La commozione mette d’accordo tutti, i belli con i brutti, è un potente veicolo retorico attraverso il quale si perdono le ragioni, in nome di qualcosa che però rimane indefinito, dai contorni incerti, in nome di qualcosa che non si sa cosa è.

Chi libera cosa? Perché? Nella conferenza stampa che presenta le iniziative del settantennale si accenna en passant al fatto che la liberazione è dai nazifascisti, lo fa la ministra Giannini, dopo una decina di minuti dall’inizio della conferenza stampa. Ma non si parla mai di antifascismo. Le strategie retoriche attraverso le quali l’antifascismo viene espulso dal discorso pubblico quando si parla di resistenza, sono messe in luce da Sergio Luzzatto nel suo La crisi dell’antifascismo.

In questo pamphlet del 2004 lo storico torinese redigeva un decalogo del postantifascismo. In esso risuona il cristiano “non uccidere”, ovvero l’imperativo categorico a rimuovere la violenza, la violenza come “levatrice di progresso”. Antifascismo contiene in sé, nel suo prefisso, un elemento perturbante, conflittuale, oppositivo, violento. Essere “anti” significa essere contro, e questo non va bene:

Risulta evidente che uno stesso pregiudizio accomuna il revisionismo sulla Resistenza italiana ai revisionismi sulla Rivoluzione francese, sulla rivoluzione bolscevica, o su quant’altro: il pregiudizio secondo cui nessuna concatenazione di idee, nessun nuovo contratto sociale, nessun progetto più o meno grandioso di società futura giustifica il deliberato spargimento di sangue umano […]. Una volta fatto proprio, sempre e comunque, il comandamento di non uccidere tanto più naturale può sembrare la richiesta retrospettiva di un approccio bipartisan alla nostra storia nazionale, e segnatamente alle vicende all’8 settembre 1943 (qui)

Del resto, non ha scritto una cosa molto diversa nel suo Una guerra civile Claudio Pavone: “Sta nella memoria storica dei fascisti l’esercizio della violenza in regime di monopolio statale o tollerato dallo Stato, così che essi ancora oggi rimangono sinceramente stupiti e quasi offesi dal constatare che gli antifascisti dopo l’8 settembre abbiano a loro volta fatto ricorso alle armi”. E questo perché intorno c’è la guerra, totale, mondiale, e combattere è una necessità.

Della liberazione rimane, invece, l’aspetto del sogno, che diventa, sì, commovente quando, per esempio, viene affidato il discorso alla voce di Samantha Cristoforetti, che nel suo spot di #ilcoraggiodi dice: “Dal passato ho imparato a credere nel futuro”.

Così Alex Zanardi, testimonial dell’altro video: “Dai nostri nonni abbiamo imparato a non arrenderci mai”.

Cosa ci trasmettono il pilota e l’astronauta? Una dimensione salvifica e astorica, ma soprattutto profondamente individuale, singolare, della memoria, che si erge come pietra angolare su cui fondare un senso comune.

Sulla riduzione del passato al punto di vista del testimone le riflessioni sono molteplici, eppure vale la pena ricordare che quando, per esempio, Fenoglio parla di una “questione privata” non intende certo la rimozione della dimensione collettiva, bensì l’affermazione di una concreta esperienza esistenziale che si inscrive nella guerra di liberazione, perché al di là delle ideologie, sono uomini in carne ed ossa a farla: “Sono sempre lo stesso, Fulvia. Ho fatto tanto, ho camminato tanto… Sono scappato e ho inseguito. Mi sono sentito vivo come mai e mi son visto morto. Ho riso e ho pianto. Ho ucciso un uomo, a caldo. Ne ho visti uccidere, a freddo, moltissimi. Ma io sono sempre lo stesso”.

Un avvenire migliore
Esiste un’unità di missione del governo per celebrare il settantennale della resistenza, un anno di eventi presentati. Sempre nella conferenza stampa del 17 aprile a palazzo Chigi, l’onorevole Luca Lotti afferma la necessità di “raccontare e far rivivere quello che è successo attraverso il ricordo e la sua attualizzazione… I ricordi di quei giovani, quelle persone… E poi lanciare un paragone tra lo spirito che animava questi ragazzi e lo spirito dei ragazzi di oggi. Il coraggio di ragazzi che imbracciavano le armi, rischiavano la vita, paragonato al coraggio dei ragazzi di oggi per far ragionare il paese su come attualizzare oggi quei valori che settant’anni fa hanno spinto a fare questa scelta”. Manca qualcosa?

C’è un episodio molto famoso nella storia della televisione italiana; è il 20 settembre del 1958 e il telegiornale è uno solo, quello del Canale Nazionale. Ugo Zatterin annuncia agli italiani la definitiva chiusura delle case chiuse, lo fa però riuscendo a non dire mai né case chiuse, né prostituzione, né tantomeno la parola sesso.
Il sottosegretario Lotti parla allo stesso modo, per ellissi, e se non ci fosse scritto “conferenza stampa sul 25 aprile” potremmo pensare che sta parlando dell’alluvione del 1966 come dei volontari accorsi a dare una mano all’Aquila dopo il terremoto: quello che è successo, il ricordo, i giovani…

Certo nessuno vuole negare la buona volontà del governo, che parla di liberazione dopo anni di totale silenzio, una buona volontà da riconoscere, e anche da apprezzare, con le migliori intenzioni, sicuramente. Ma le buone intenzioni, senza un progetto culturale, a cosa servono?

Non sappiamo cosa hanno provato
L’assenza di una riflessione seria, di una progettualità narrativa nell’intera impostazione di #ilcoraggiodi si fa drammatica nella frase dello spot: “Non sappiamo cosa hanno provato”. Perché invece no: sappiamo benissimo, e nei dettagli, cosa hanno provato gli italiani e le italiane che hanno partecipato attivamente, ma anche passivamente, alla liberazione dal nazifascismo.

Lo sappiamo perché ormai da decenni la storiografia, la memorialistica, il cinema e anche la televisione ce l’hanno raccontato. Sappiamo dei dubbi, delle incertezze, degli abbagli, sappiamo delle delusioni, delle aspettative, della rabbia e della riscossa. Sappiamo come e perché dopo il 25 luglio del 1943 invece di aspettare la fine della guerra in molti hanno imbracciato le armi, e dato vita alla resistenza.

E se non lo sappiamo possiamo sempre leggere Una guerra civile di Claudio Pavone e farcene un’idea: “Il 25 luglio – ricorda un reduce dalla deportazione – all’improvviso siamo stati tutti contenti, come una liberazione, perché abbiamo scambiato il 25 luglio per la fine della guerra; e poi quando ci siamo accorti che non era così, ci è venuta la rabbia in corpo, una rabbia terribile”. O ancora:

I quarantacinque giorni di Badoglio non avevano dunque “salvato il salvabile”, come suonava una formula allora in voga, sprezzantemente contestata dalla intransigenza giovanile del nuovo antifascismo di guerra. La “serietà della storia d’Italia” stava infatti impedendo che il fascismo sfuggisse “alle sue responsabilità fingendo di autoaffondarsi con un ordine del giorno del Gran Consiglio”. Quando c’è la guerra, aveva scritto Freud nel 1915, “lo Stato richiede ai suoi cittadini la massima obbedienza e il massimo sacrificio, ma li tratta poi da minorenni”, facendo nascere così uno stato d’animo “privo di ogni difesa di fronte a qualsiasi situazione sfavorevole che possa determinarsi”. La guerra fascista e il crollo dell’8 settembre generarono in Italia, in vastissime proporzioni, fenomeni di questo tipo; ma i minorenni privi di difesa ebbero una vasta gamma di reazioni che ne attestarono, anche nelle loro contraddizioni, la volontà di non farsi sommergere.

Ma se non vogliamo leggere il monumentale Una guerra civile, possiamo prendere la Storia della Resistenza in Italia di Santo Peli e dare un’occhiata anche alla sola introduzione, dove si ricostruiscono umori, idee, aspettative e motivi della scelta di chi ha dato un contributo essenziale non tanto e non solo alla liberazione quanto alla possibilità di andare oltre il fascismo gettando i semi culturali e morali per la repubblica.

Questo, dico, possiamo farlo, prima di scrivere la frase: “Non sappiamo cosa hanno provato”, perché se non sappiamo noi, e lo ammettiamo anche, come possiamo essere credibili nei confronti di quei famosi giovani che invece, davvero, non sanno, e, molto spesso, neanche distinguono i tratti fondamentali della storia d’Italia?

#Ilcoraggiodi
Il coraggio è una parola praticamente assente nella memorialistica e nella storiografia sulla resistenza e sulla liberazione. Il coraggio è una parola difficilmente pronunciabile da chi lo ha; non a caso è una parola invece tanto amata dai fascisti.

I partigiani non dicono mai di essere coraggiosi, nessuno si è mai sognato di raccontarsi così. Scrive Vittorio Foa: la scelta di resistere è stata “una disperata necessità”. E Arturo Carlo Jemolo: “Singolare, questa tremenda libertà di scelta nelle massime cose, questa via tracciata nelle minime”. La disperazione impone dei doveri, l’infelicità può essere preziosa.

E poi il coraggio rimanda a una dimensione individuale, eroica, solitaria, mentre la guerra di liberazione fu una scelta dettata anche da ragioni personali, questioni private, ma in fondo antindividualista, collettiva, politica, nel significato più etimologico del termine.

Chi si avvicina al movimento della resistenza con motivazioni politiche lo fa per “approfondire e rendere irreversibile una radicale discontinuità rispetto al regime fascista, alla monarchia che ne ha condiviso fasti e avventure, ai valori ideali e alle gerarchie sociali che nel ventennio si sono imposti come modelli per l’intera società nazionale”. Discontinuità, rottura, politica, conflitto. Scrive Santo Peli:

Accanto a questa resistenza, incentrata su un consapevole progetto politico-militare, esiste una resistenza molto più diffusa, multiforme e mutevole, che ha le sue radici nella stanchezza, nel rifiuto della guerra, e che si manifesta nella renitenza alle nuove leve militari e al lavoro obbligatorio per gli ‘occupanti-alleati’ tedeschi, nelle mille forme di autosottrazione e di mancata collaborazione. Solo in minima parte questa resistenza alla guerra si traduce in una volontaria e meditata partecipazione diretta alla guerra partigiana vera e propria, anche se ne costituisce un presupposto indispensabile. Consapevolezza storica, preparazione politica, motivazioni intellettuali ed etiche fortemente sentite sono molto rare. Comprendere grandezza e limiti della resistenza, intravederne i contorni utopici quanto il realismo politico è possibile solamente pensando a una società che vent’anni di fascismo hanno in gran parte spoliticizzato e appiattito, occupando tutti i gangli vitali della vita collettiva: ‘la piazza’, la cattedra, l’informazione. È indispensabile insomma tener conto della materia prima che la Resistenza ebbe a disposizione

Per una società spoliticizzata e appiattita da un ventennio (come risuona in questa frase), allora un hashtag potrebbe essere #bastacon.

Invece per attualizzare la resistenza si sceglie di lanciarne uno appunto che raccolga il punto di vista dei giovani di oggi su il coraggio. Si legge sul sito del governo: “Il tema del coraggio è anche il fil rouge di una campagna social: declinato nelle sue diverse forme e attualizzato alla nostra quotidianità, ha ispirato una call-to-action lanciata su Twitter e valorizzata dal canale ufficiale @70esimo per raccogliere, tra gli utenti, le risposte alla domanda ‘che cos’è per te il coraggio?’. Raccontalo in un tweet con #ilcoraggiodi”.

Milioni di tweet sul coraggio. E così nella timeline c’è chi rilancia le iniziative per il 25 aprile certo, chi ricorda i nonni partigiani; chi scrive cose tipo “#ilcoraggiodi superare il panico col sorriso, con fede e con ottimismo”, “#ilcoraggio di vivere con entusiasmo e sperare nel futuro… anche quando sei circondata da pessimisti cosmici !!!”, “#ilcoraggiodi tagliare gli sprechi e valorizzare le ricchezze del nostro unico e meraviglioso paese”.

Il punto è che milioni di tweet sul coraggio non fanno un movimento, né chiamano all’azione, e relegano ancora a una volta a una dimensione privata, solitaria, la voce di chi prende la parola. Semmai fiducia, solidarietà; non coraggio. E – sottolineiamo – la fiducia nel futuro aveva per tutti i movimenti di resistenza, “così alla sorgente come alla foce, la fiducia nella vita e nell’umanità”.

Scrive ancora Pavone:

Sperando nella vita mi avvio alla morte”, scrisse un’operaia tedesca prima di essere decapitata; e un francese, alla vigilia della fucilazione: “Volevo che tutta l’umanità fosse felice”. Una condannata belga credeva che “dopo questa guerra si inizierà una vita di felicità” (…). Parafrasando un vecchio canto anarchico, un anziano comunista italiano così si rivolse ai figli: “Amate la madrepatria, ma ricordate che la patria vera è il mondo intero e, ovunque vi sono vostri simili, quelli sono i vostri fratelli”

Ma forse si capisce meglio così? #quellisonovostrifratelli.

Resistenza carsica
“Come dai laghi antichi, dal profondo limo che cova da secoli sostanze organiche viene all’improvviso su un rigurgito di ripetute bolle di gas, annunciando ineluttabilmente che esiste il passato, mi volsi verso di lui”. Quando, nel 1968, Mario Tobino scrive Una giornata con Dufenne ha ben presente che la storia e la memoria della lotta partigiana sono temi che attraversano in modo carsico la storia italiana del dopoguerra, riaffiorando, a tratti, per poi scomparire. Un “profondo limo” sepolto secondo Giovanni De Luna, dalla retorica vuota delle celebrazioni ufficiali, da un revisionismo feroce che l’ha posta sotto attacco costante.

Oggi, a settant’anni di distanza il limo esce di nuovo in superficie anche per merito di questa iniziativa istituzionale, e suscita, ancora una volta polemiche e divide, ed è giusto che sia così: la festa della liberazione, negli anni in cui è stata più sentita è stata lo specchio delle tensioni esistenti, e il fatto che lo sia anche oggi può fare solo piacere.

In questo senso ogni tentativo di attualizzarla e restituirle un senso è il benvenuto, anche a costo di forzare la mano, attribuendo un senso che gli diamo noi, oggi. Il 25 aprile non è un museo, non esistono problemi di correttezza e di filologia; e anche questo articolo non vuole indicare errori, ma suggerire sguardi possibili e diversi. Una visione che sottragga la celebrazione alla melassa dei buoni sentimenti e di un blob di immagini che hanno saturato l’immaginario, finendo per dipingere una vaga notte in cui tutte le vacche sono nere, i gatti sono bigi, e il senso di uno spot per il 25 aprile non si distingue più da quello di una campagna per l’8 per mille.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it