18 gennaio 2015 21:12

Nel 1964, quando era da poco cominciato l’embargo statunitense, il regista russo Michail Kalatozov fu incaricato da una produzione sovietico-cubana di girare un film di propaganda. Era il primo tentativo dell’Unione Sovietica di esplorare il mondo fuori dalle sue frontiere, dopo il progetto mai portato a termine di Que Viva México! di Ėjzenštejn.

Ambientato alla fine degli anni cinquanta nell’isola caraibica, il film di Kalatozov, intitolato Soy Cuba, avrebbe dovuto rappresentare l’anima del popolo cubano e la sua gloriosa lotta verso la rivoluzione.

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Ideato come un kolossal, il film si rivelò un flop. Sia i russi sia i cubani disprezzarono la stilizzazione a scapito del contenuto rivoluzionario. Inoltre i cubani non si sentirono rappresentati.

Kalatozov e il suo direttore della fotografia, Sergej Urusevskij, ci regalano dei formidabili piani sequenza, carichi di sensualità e feste, in cui è difficile optare emotivamente per la denuncia degli effetti del capitalismo.

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L’amore di Kalatozov per il cinema lo porta a una libertà espressiva che trascende l’ansia pedagogica di propaganda, o meglio la devia rendendola più complessa.

Nonostante l’investimento economico, quattordici mesi di riprese, mille soldati cubani usati per girare una singola scena, il film finì presto dimenticato. Furono Martin Scorsese a Francis Ford Coppola, trent’anni dopo, a tirarlo fuori dall’oblio e decretarne il successo.

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Scorsese ha detto che sarebbe stato un regista diverso se avesse visto Soy Cuba da ragazzo. Così, paradossalmente, un film di propaganda nato dall’asse sovietico-cubano contro gli Stati Uniti si è trasformato in un film da manuale che va a rimodellare il canone del cinema americano. Paul Thomas Anderson è tra i molti a pagare il suo tributo.

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Quando il regista brasiliano Vicente Ferraz decise di girare Il mammuth siberiano, un documentario sulla strana parabola di Soy Cuba, contattò le persone che ci avevano lavorato e si trovò tra le mani una storia ancora più potente di quella che aveva immaginato: nessuno a Cuba aveva idea che il film fosse diventato un cult negli Stati Uniti.

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È interessante vedere come le reazioni degli intervistati rispetto al loro coinvolgimento nel film cambino radicalmente quando si rendono conto di aver contribuito a realizzare un capolavoro. La maniacalità ossessiva, snervante e incomprensibile di Kalatozov diventa di colpo il marchio di fabbrica della genialità.

Ferraz dice che il titolo del suo documentario è ispirato all’emozione che avrebbe provato un paleontologo nel rinvenire un mammut siberiano sulle spiagge caraibiche. Ma è anche la metafora di tutto ciò che si è estinto, l’Unione Sovietica e un certo modo di fare cinema.

C’è qualcosa di profetico in una delle scene più belle di Soy Cuba. Non sappiamo se è vero che siamo todos americanos, ma sicuramente tutto quello che si apprestava all’estinzione vive nel suo stesso funerale come un’immagine del futuro.

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