09 dicembre 2012 22:40

Due cose che ho visto online nell’ultimo mese mi hanno fatto riflettere sul neocolonialismo che a volte si nasconde sotto l’impulso, meritevole, di aiutare le persone meno fortunate di noi che abitano in paesi lontani.

Non è un tema nuovo, lo so, ma ha preso una piega tecnologica insolita (almeno per me) con questa notizia uscita

sulla Technology Review, la rivista online del Massachusetts institute of technology (Mit). In Italia la notizia è stata riportata soprattutto dai blogger e in questo articolo uscito più di un mese dopo su Repubblica.

In breve, la notizia del Mit è questa. L’ong statunitense One laptop per child (Un bambino, un portatile), fondata dal guru multimediale Nicholas Negroponte e già citata su Internazionale da Tullio de Mauro qua e qua, ha condotto un esperimento audace in Etiopia. Alcuni operatori hanno lasciato in due villaggi sperduti e poverissimi, Wonchi e Wolonchete, dei tablet in cui erano stati caricati dizionari, giochi di parole, ebook, film, animazioni, canzoni e altri programmi.

Destinati ai bambini di sei o sette anni (ma non è dato sapere come si è fatto rispettare questo vincolo d’età), i tablet (dei Motorola Xoom) erano imballati ma senza manuale. Che comunque sarebbe servito a poco, perché gli abitanti locali non sanno leggere.

“Pensavo che i bambini avrebbero giocato con le scatole”, ha detto Negroponte, facendo già trapelare un certo paternalismo colonialista. “Ma in quattro minuti uno di loro aveva già aperto una scatola, aveva trovato il pulsante di avvio ed era riuscito a accendere il tablet. Cinque giorni dopo, ogni bambino usava una media di 47 app al giorno. Nell’arco di due settimane andavano in giro per il villaggio cantando l’alfabeto (in inglese) e solo cinque mesi dopo avevano già imparato ad hackerare il sistema operativo Android” (per far funzionare la macchina fotografica, che era stata disabilitata, e per personalizzare le loro home page, che erano state impostate dal sistema in modo uniforme).

Premettiamo che il *core business * dell’ong è tutt’altra cosa: in collaborazione con le autorità governative e regionali, e con la partecipazione di direttori e maestri delle scuole locali, distribuisce gratuitamente dei laptop sviluppati al Mit appositamente per i bambini dei paesi in via di sviluppo (quindi resistenti agli urti, facili da ricaricare anche tramite energia solare), a intere classi di scuole elementari in territori che vanno dal Ruanda a Gaza al Nicaragua. Finora, circa 2,4 milioni di bambini e insegnanti hanno ricevuto così un computer. L’esperimento in Etiopia nasceva dalla volontà di raggiungere anche quei bambini che non andavano a scuola. Lo scopo dichiarato era “vedere se i bambini analfabeti possono imparare a leggere da soli”.

Fin qui tutto bene: credo che l’istruzione sia un diritto fondamentale, perché ha la potenzialità di liberarci da soprusi e soggezioni di tipo economico, politico, familiare. E credo che l’educazione informatica e l’accesso alla rete siano diritti anche dei bambini africani.

Ma, detto questo, l’esperimento etiopico mi crea un certo disagio. Innanzi tutto perché solleva molte domande. Fino a che punto sono stati consultati gli abitanti del posto e gli stessi bambini, prima di lanciare lo studio? Si sa che una certa quantità di dati utili alla ricerca sono stati ricavati dalle memorie dei tablet, che erano sostituite da un tecnico una volta a settimana. Ma altri elementi (per esempio l’apertura degli imballaggi) sono chiaramente frutto di osservazioni dirette.

Chi osservava i bambini, e come li osservava? (Erano nascosti dentro delle tane, come gli ornitologi, magari con il binocolo?) Qualcuno ha controllato che l’introduzione dei tablet non abbia provocato rancori, rivalità o l’emarginazione dei più deboli, come la bottiglia di Coca-Cola nel film sudafricano Ma che siamo tutti matti?

E finito l’esperimento, cos’è successo? I tablet sono stati ritirati? Oppure sono stati lasciati morire lentamente perché il tecnico che andava a controllare il corretto funzionamento sia del tablet sia dei panelli solari che permettevano di ricaricarli, è stato pagato solo per un determinato periodo? E nessuno ha pensato che sarebbe stato meglio cercare di tradurre almeno un paio di app in oromo (la lingua locale) invece di avviare questi bambini verso l’apprendimento visivo di una lingua che non è neanche la loro?

In realtà, risposte parziali ad alcune di queste domande sono state fornite da Ed McNierney nella discussione molto accesa che si è sviluppata nei commenti all’articolo della Technology Review. Ma in questi casi è sempre utile il gioco al rovescio proposto da Umberto Eco nel suo divertentissimo saggio antropologico-satirico “Industria e repressione sessuale in una società padana”. Se un’ong etiopica arrivasse un giorno in un paese del midwest statunitense proponendo, che ne so, di confiscare tutti i cellulari, tablet e computer dei bambini tra i sei e gli otto anni, sostituirli con dei tablet programmati interamente in oromo e osservare i bambini mentre li usavano, come sarebbe accolta?

Il secondo spunto di riflessione sul tema della cooperazione come forma di neocolonialismo l’ho trovato in questa bellissima Ted talk di Ernesto Sirolli,un economista italiano trapiantato in Australia e fondatore del Sirolli institute for enterprise facilitation. Spero di non sembrare neo-colonialista anch’io proponendovi un intervento in inglese, ma vale la pena di seguirlo fino alla fine.

Una cattiveria finale: non è che l’esperimento dell’ong sarà durata solo qualche mese perché è una legge universale che se dai un tablet a un bambino, ovunque nel mondo, in meno di un anno avrà trovato un modo per hackerarlo per giocare a Call of duty, Gran turismo e/o Super Mario Bros?

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