16 maggio 2014 00:30

I first world problems sono quei problemi di noi borghesi del mondo sviluppato (mi scuso con quei lettori che non si riconoscono in questo “noi”) che vengono ridimensionati di fronte, che ne so, a un terremoto ad Haiti o a una strage di minatori in Turchia.

Decidere se comprare una seconda macchina o no, se mandare il figlio a un asilo nido privato o no. Questi sono sono due tipici first world problems. Gli stessi guai che hanno i protagonisti di Grace di Monaco, il film di apertura del Festival di Cannes 2014, sono di tutt’altra dimensione. Sono tax haven problems e royal family problems: problemi da paradiso fiscale e famiglia reale.

“Dovrei tornare a fare l’attrice per il mio amico Hitch?”, si chiede la principessa Grace, mettendo a repentaglio la dignità del casato Grimaldi. Il principato più piccolo del mondo dovrebbe cedere alle pressioni del presidente francese De Gaulle di alzare le tasse per evitare la fuga di capitali da Parigi? Non è scandaloso che le signore del comitato della Croce rossa pensino più al loro ballo di beneficenza annuale che non a costruire un orfanotrofio decente per tutti i poveri orfani monegaschi (anche se i poveri orfani monegaschi sono una specie più rara della tigre bianca)?

Ma si potrebbero perdonare molti

tax haven problems al film di Olivier Dahan, se ci fosse una briciola di autenticità nella storia ambientata nel 1962, cinque anni dopo il matrimonio “da favola” tra l’ex attrice di Filadelfia Grace Kelly e il principe Ranieri di Monaco. Forse l’unica cosa vera è che la loro unione non fu felice. Che De Gaulle fosse in procinto di mandare i carri armati contro Monaco - in quella che il film spaccia come una specie di crisi dei missili di Cuba su territorio europeo - che la sorella del principe, Antoinette, baronessa di Massy, fosse una spia francese all’interno della corte monegasca, che Hitchcock abbia visitato il principato per convincere Grace a fare la protagonista di Marnie, che De Gaulle accettò l’invito al ballo della Croce rossa dell’autunno 1962, in piena crisi è tutta una “licenza poetica”. È falso.

Certo, i biopic non devono citare le fonti e avere le note a piè di pagina. Ma l’impresa ardua di renderci simpatica una principessa ricchissima non è resa più semplice dall’idea che la sua favola triste sia tutta una favola.

A riportarci con i piedi per terra e rinnovare la nostra fiducia nella settima arte ci pensa Timbuktu, del regista mauritano (ma cresciuto prima a Mali poi a Parigi) Abderrahmane Sissako. È un film che inquadra un problema del mondo in via di sviluppo che è al centro dell’attenzione dopo il rapimento di più di 200 ragazze nigeriane da parte di Boko haram: il dilagare dei jihadisti nei paesi subsahariani. Ma lo inquadra da un punto di vista africano, da chi ha convissuto a lungo con il colonialismo. Che era anche questo un tentativo di “civilizzare” i territori occupati attraverso l’applicazione di regole arbitrarie (almeno dovevano sembrare così alla popolazione locale).

“È vietata la musica. È vietato fumare. Le donne devono portare i calzini. Le donne devono portare i guanti”. Queste sono solo alcune delle nuove disposizioni gridate dal megafono nelle strade sabbiose di un villaggio nel deserto che è stato occupato da uomini armati. Non sappiamo esattamente chi sono (si definiscono jihadisti, ma entrano nelle moschee senza togliersi le scarpe), non sappiamo esattamente dove ci troviamo, e questo senso di disorientamento rispecchia quello degli abitanti, musulmani anche loro per la maggior parte, che subiscono le vessazioni dei loro nuovi padroni non senza proteste.

È un film visivamente molto bello, come i suoi paesaggi aridi, come le facce dei suoi pastori tuareg segnate dalle intemperie. Ci sono delle scene memorabili, come quella di una partita di calcio giocata senza palla (anche il calcio è vietato, il che non impedisce agli uomini che l’hanno messo al bando di discutere animatamente dei successi del Barcellona o del Real Madrid). Ma soprattutto è un film che riesce a evocare un mondo orwelliano senza renderlo meno reale e senza rinunciare a un pathos che viene esteso a tutti i suoi personaggi, vittime e carnefici.

Speriamo che qualche distributore lo prenda per l’Italia, meriterebbe. Potrebbe spuntarla per la Palma d’Oro? Non è impensabile, anche se siamo ancora all’inizio.

Solidale con Nicole Kidman, che interpreta Grace con degli occhi così perennemente rossi che sembra soffra di congiuntivite, non mi andava di mangiare da Ducasse a Monaco, neanche davanti all’affare di un menù fisso – offerto solo a mezzogiorno – al prezzo stracciato di 145 euro. Invece sono sceso nelle viscere del Palais des Festival, tra bidoni e bidelli, per pranzare nella mensa del personale, pagando la bellezza di 9 euro. Davanti a me c’erano un gruppo di poliziotti motociclisti, di quelli che la sera scortano le limousine tra l’Hotel Carlton e il tappeto rosso. Da un paio di anni la mensa è diventata il mio ritrovo abituale all’ora di pranzo. Aiuta a smaltire la follia della Croisette e tornare a una dimensione più umana.

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