13 gennaio 2015 18:17

Shaadi fuma e aspetta: seduto nella hall dell’albergo che è diventato la sua seconda casa, accende una sigaretta dopo l’altra, guarda nervosamente il cellulare in attesa della chiamata. “Gira voce che domani ne parta una”, dice con un tono che oscilla tra speranza e rassegnazione. Ha trentaquattro anni, li ha appena compiuti, ha una moglie e due figli lasciati a Damasco. È un ex contabile, ha un sorriso spento da impiegato triste, e ha già versato seimila dollari agli scafisti per imbarcarsi su una nave che lo porterà direttamente in Italia – e “da lì in Germania, dove otterrò l’asilo politico e farò venire la mia famiglia”.

Shaadi è uno dei passeggeri del prossimo “cargo fantasma” pronto a salpare verso le coste italiane. La partenza, che dovrebbe essere imminente, non è un segreto per nessuno qui a Mersin, la città portuale del sud della Turchia diventata la nuova porta verso l’Europa per i siriani in fuga dalla guerra. Nei ristoranti di kebab, negli alberghi un po’ miseri vicini alla stazione degli autobus, nei caffè sul lungomare dove ormai si parla più arabo che turco, tutti lo dicono a mezza bocca: una nave di circa cento metri sarebbe già pronta a prendere il largo e aspetterebbe solo un miglioramento delle condizioni del tempo e del mare per cominciare il viaggio.


Mersin è il più grande porto della Turchia. È un punto di snodo, di cui la zona franca è il cuore pulsante, con i suoi grandi magazzini, le sue imprese di produzione, i suoi uffici commerciali. Sulle sue banchine attraccano ogni giorno decine di navi mercantili; arrivano a tutte le ore e scaricano container pronti a essere trasportati nei più remoti angoli dell’Anatolia e anche più in là. Poco lontano dall’area commerciale, il lungomare ostenta una ricchezza ricercata, ma non cafona: giochi attrezzati per bambini, giardini curati e una serie di caffè moderni con tavolini all’aperto in cui si fuma il narghilè e si beve chai (tè) dalla mattina alla sera.

In questi caffè si ritrovano ogni giorno i siriani in transito. Vengono a guardare il mare, a scambiarsi ricordi sul loro paese disastrato, a scattarsi selfie con il cellulare per poi mandarli via WhatsApp o Viber alle famiglie o agli amici rimasti a casa. Non sono i profughi senza nulla che si trovano nei campi subito al di là della frontiera: questa è la classe media che sogna l’Europa e che, per arrivarci, non ha altra scelta che salire sul cargo.

Come in un microquartiere diventato di fatto una banchina, passano in tanti: stanno lì, ciondolano, e non aspettano altro che la chiamata e l’imbarco. Sono uomini per lo più, ma ci sono anche donne e bambini. Alcune volte, famiglie intere. Non sono i diseredati, gli straccioni, sono la classe media: quella che ha perso ogni speranza e che lascia tutto dietro di sé per ricominciare a vivere lontano da una guerra di cui non si vede la fine. Li vedi anche dalle facce, sono professionisti, commercianti, artigiani: hanno venduto le case, le automobili, i gioielli, per racimolare la cifra necessaria per il viaggio in Europa – tra i 5.500 e i 6.500 dollari, a seconda dell’intermediario utilizzato e delle capacità di negoziare – e per il proseguimento dall’Italia alla meta finale, che sia la Germania, i Paesi Bassi, la Danimarca.

Mersin, Turchia. Gennaio 2015. (Mario Poeta)

Per esempio, Kamil ha sedici anni e vorrebbe arrivare in Svezia. Ha due peli in faccia e una maschera di timidezza che stride con l’impresa a cui si sta preparando. A Mersin è venuto accompagnato dal padre Ahmed, che non si imbarcherà con lui ma tornerà dalla moglie e dagli altri figli. Ogni giorno vanno insieme a mangiare in un piccolo ristorante siriano a due passi dal loro alberghetto: per sei lire turche (2,5 euro) ottengono un pasto “come a Damasco” e soprattutto respirano aria di casa. I due stanno consumando l’ultimo pranzo insieme: Ahmed ha sbrigato “le pratiche” per la partenza del figlio, ha pagato l’intermediario ed è pronto a ripartire. Abbraccia Kamil e, quasi per convincersi che è giusto mandare un figlio minorenne da solo in alto mare su un cargo illegale, dice ad alta voce: “Non aveva futuro in Siria, la sua sola chance è andare in Europa. E l’unico modo per arrivarci è questo: la nave”.

Il ragazzo annuisce, si dice fiducioso, sembra convincersi anche lui delle parole del padre, ma non ce la fa a nascondere la paura. “Andrà tutto bene”, lo rassicura il padre, mentre si chiede perché il mondo intero abbia chiuso le porte in faccia alla Siria. “Perfino il Libano ormai ci ha imposto il visto per entrare. Oggi la Turchia è l’unico paese che ancora ci accoglie”. Nel paese anatolico ci sono al momento 1,8 milioni di rifugiati siriani. A Mersin ce ne sono 150mila, secondo stime della municipalità. Di questi, almeno mille sarebbero pronti a salire sulla nave in partenza.

Conseguenza del ridimensionamento e della successiva chiusura dell’operazione Mare nostrum lanciata dal governo italiano il 18 ottobre 2013 e conclusa alla fine del 2014, la nuova rotta turca si è aperta nell’autunno scorso. Il primo mercantile è sbarcato a Crotone il 28 settembre 2014. Da allora ne sono arrivati tredici, per un totale di circa 6.500 immigrati. L’ultimo – l’Ezadeen, che batteva bandiera della Sierra Leone – è stato dirottato su Corigliano Calabro la notte tra il 2 e il 3 gennaio.

La dinamica è sempre la stessa: gli imprenditori del trasporto clandestino comprano a costi stracciati mercantili vecchi e prossimi alla rottamazione, li stipano di viaggiatori e li lanciano come “vuoti a perdere” verso le coste italiane. Dopo cinque o sei giorni, quando la nave è vicina alle nostre acque territoriali, l’equipaggio blocca il timone, chiama i soccorsi e si dà alla macchia. Un lavoro pulito. Poi, i mezzi della capitaneria di porto intervengono e guidano lo scafo verso il porto più vicino. Il 31 dicembre, una chiamata fatta troppo tardi ha quasi provocato una strage, quando la nave BlueSkyM è stata intercettata senza comando a cinque miglia marine dalle coste pugliesi e condotta nel porto di Gallipoli con il suo carico di 970 passeggeri, la maggior parte siriani.

I viaggi sono pubblicizzati sui social network, con tanto di tariffe, informazioni e numeri di cellulare degli intermediari da contattare per prenotare. Gli annunci sono espliciti: “Nave tra i 75 e i 120 metri in partenza per l’Italia, senza passaporto né visto”. “Stiamo organizzando un viaggio su una nave da Mersin”, conferma al telefono un uomo che si fa chiamare Abu Wassim e che dice di trovarsi a Istanbul. “Tutto sicuro, coperte, cibo e permanenza negli hotel a nostre spese fino al giorno dell’imbarco. È come andare in crociera”.

I numeri non sono criptati, gli intermediari non si fanno scrupoli di sicurezza, si comportano come veri agenti di viaggio. Si dice che ce ne siano una quindicina; che siano tutti siriani sparsi per la Turchia e che prendano una commissione di 500 dollari a persona imbarcata. I guadagni per i capi dell’organizzazione sono giganteschi. Il calcolo è facile da fare: a seimila dollari a persona per 970 passeggeri, una nave come la BlueSkyM ha fruttato circa sei milioni di dollari. Anche sottraendo i costi dell’acquisto del cargo, le commissioni pagate agli intermediari e lo stipendio dell’equipaggio, si mettono insieme utili da capogiro.

Mersin, Turchia. Gennaio 2015. (Mario Poeta)

La nuova rotta sta assumendo dimensioni e varietà che ne fanno prevedere una prossima espansione: un altro intermediario, che usa sempre Facebook per pubblicizzare i suoi servizi, vende biglietti per uno “yacht in partenza dalla costa turca che vi porta direttamente su una spiaggia italiana. 40 posti e stesso prezzo: seimila dollari. Biglietti scontati per vecchi e bambini”. Al telefono l’uomo dice che “la barca potrebbe partire da Istanbul, da Izmir o da Antalya, sarà comunicato poco prima dell’imbarco”. Oltre a questo, vende passaggi per un’altra nave che “per soli settemila dollari carica i passeggeri a Tripoli, in Libano”.

I punti di partenza si stanno differenziando, così come le modalità di trasporto su questa rotta. La parziale chiusura della via libica, troppo pericolosa a causa della situazione sul terreno e delle condizioni proibitive del mare in inverno, ha provocato uno spostamento degli imbarchi nella zona orientale del Mediterraneo. Il ritiro dei mezzi dell’operazione di Mare nostrum, che fino all’anno scorso si spingevano fin quasi alle coste libiche per prestare soccorso ai barconi in difficoltà, ha aggiunto un’ulteriore pesante incognita sulla rotta tradizionale.

I siriani sono disposti a pagare molto di più, ma vogliono garantirsi migliori condizioni di sicurezza. Il pagamento avviene in un ufficio a due passi dal lungomare. Il gestore è un uomo d’affari che si fa chiamare Al Rasheed. Non è facile trovarlo, non c’è un’indicazione, un’insegna, non c’è una vetrina. Ma basta interrogare la voce della strada: chiedi in arabo, e lo conoscono tutti. Due stanze ammobiliate in modo semplice, una porta al primo piano di un palazzo anonimo, il “Maktab Rasheed” è lo sportello dei biglietti per il viaggio clandestino. Qui transitano i milioni di dollari generati da ogni cargo in partenza verso l’Europa. Immaginate un’agenzia di money transfer informale: raccoglie i soldi, li tiene in deposito e fornisce un codice a chi ha pagato. Una volta in Italia, il viaggiatore chiama gli scafisti e gli comunica il codice. Si paga all’arrivo, soddisfatti o rimborsati.

A Mersin i passeggeri vengono caricati di notte su dei barchini e trasbordati al largo sulla grande nave, dove viaggiano nella stiva. “Ti portano in macchina in un posto a circa 50 chilometri dalla città. Poi si cammina per circa un’ora in un bosco e si arriva in una spiaggia dove ci sono delle barche di 20-30 metri”, racconta Wassim. Faceva l’orologiaio, ha 27 anni, ed è fuggito dalla Siria dopo aver trascorso diversi mesi nelle carceri di Bashar al Assad perché si rifiutava di combattere. “Mi hanno arruolato a forza, ma quando il comandante ha visto che sparavo in aria, mi hanno sbattuto in prigione”, racconta con fierezza senza troppo soffermarsi sul fatto che ha perso un occhio per le percosse ricevute dai suoi carcerieri.

Ha cercato in tutti i modi di ottenere un visto per l’Europa, ha lasciato a Damasco la moglie incinta, è venuto fino a Mersin e ha contattato gli scafisti. Un suo caro amico, che era sulla BlueSkyM, gli ha dato i contatti di un “intermediario fidato” e gli ha raccontato come si svolge il viaggio. “Sulle barche piccole caricano circa 50 persone alla volta. Le portano al largo, molto distanti dalla costa. Si naviga per circa due ore, finché non si raggiunge la nave grande”, spiega Wassim con minuzia di dettagli, cercando di contenere l’emozione per la partenza imminente. “Sono dodici giorni che sono qui a Mersin, non vedo l’ora di andare”.

Accanto a lui, il contabile Shaadi scuote il capo. Sono tre settimane che anche lui sopravvive in un’attesa fatta di giorni esasperanti, uguali, vuotissimi, in cui la tensione si scioglie in una specie di inerzia nera. Mentre i due discutono intorno al tavolo sorseggiando il centesimo tè, un bimbo di circa tre anni, due occhi marroni tondi come fari e i ricci bruni spiaccicati sulla fronte, si avvicina e urla: “Voglio prendere la nave e arrivare in Germania!”.

“Ripete quello che sente dire da giorni intorno a lui”, scoppiano a ridere entrambi. Sarà così: anche il piccolo salirà sul cargo in partenza e, se tutto andrà bene, si ricorderà per molti anni a venire di Mersin, città di transito e di quel viaggio in mare che lo ha portato verso una nuova vita, lontano dal suo paese e da una guerra cominciata ancora prima che lui venisse al mondo.

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