24 gennaio 2016 12:02

Scrive Baudelaire che “ci sono tante bellezze quanti modi consueti di cercare la felicità”, e lo fa negli Scritti sull’arte, dove commentando i salon parigini, l’attualità di pittori come Eugène Delacroix e Constantin Guys, descrivendo la bellezza nascosta nella bruttezza urbana ed esaltando lo sguardo di chi sa scovarla, fonda l’estetica moderna.

Quel libro, pubblicato in Italia da Einaudi, è il caposaldo di chiunque abbia studiato filosofia in una malinconica città di provincia: siamo presuntuosi e diamo per scontato che parli di noi molto più che della Francia dell’ottocento. Di quanto sia triste e brutto il posto in cui siamo nati e di quante fughe possiamo trovare una volta rassegnati al caos di quartieri che decadono, mentre cerchiamo piccole rivincite per far risorgere il nostro stupore.

Così, sul finire di un pomeriggio d’inverno a Messina, dopo la sgradevole sorpresa di aver trovato cambiato il molo dove andavo a rifugiarmi a vent’anni tuffando le gambe a penzoloni sullo stretto (allora lo chiamavo “il piccolo ovunque”), ho voltato le spalle al porto e seguito le tracce di una nuova estetica.

Risoluta identità

C’è il tram, adesso, che negli anni novanta non c’era. Viaggia lungo il mare da un capo all’altro della città e, grazie a un bando del progetto Distrart (Distretti d’arte urbana), le pensiline sono appena state dipinte da diversi street artist messinesi. Si chiamano Maria Rando, Kuma, MaCa, Vanflowers, Nicolò Amato, impossibile citarli tutti: quelli che hanno passato la selezione rispondendo alla chiamata hanno lavorato da soli o in gruppo, hanno ideato come abbellire quelle banchine grevi e fatiscenti, hanno prodotto immagini non solo ornamentali rielaborando miti come Colapesce, Mata e Grifone, Scilla e Cariddi.

Nelle loro opere si legge l’affermazione risoluta dell’identità di una provincia troppo spesso descritta come priva di identità. Siamo sul lungomare, vero cuore di Messina, città millenaria e distrutta dai sismi fino a non avere più un centro storico: rimane e resiste solo la costa, il bordo che a un certo punto ripiega su sé stesso formando una falce. Il terremoto del 1908 ha privato il lungomare della Palazzata neoclassica, l’ininterrotta cortina di edifici creata dall’architetto Giacomo Minutoli in sostituzione della precedente Palazzata barocca, perfino più meravigliosa, voluta da Simone Gullì e ancor prima rasa al suolo dal terremoto del 1793. Senza la Palazzata, annoverata spesso tra le meraviglie d’Italia, il cuore di Messina è apparso a lungo orfano e sbiadito, rischiando di ricalcare l’immagine di una città trascurata e difficile.

Un’opera di Daniele Battaglia a Messina, gennaio 2016. (Sandro Messina)

Invece, una fermata dopo l’altra, quel cuore oggi pulsa di nuovo. Tornano le leggende dello stretto, i racconti dei nonni e la mitologia del mare, il ragazzo metà umano e metà pesce protagonista di una fiaba narrata da Sciascia e Calvino, il gigante saraceno e la principessa locale fondatori della città, i terribili mostri delle due coste, gli incubi e i sogni di chi attraversa la linea d’acqua che separa l’isola dalla terraferma.

Compaiono insieme ai nuovi sbarchi di migranti e alla raffigurazione delle tragedie del Mediterraneo, cosicché il novello flâneur che oggi prenda il tram o ne segua a piedi il percorso può osservare da un lato il mare, sempre lì con le sue piccole increspature schiumose e i riverberi dei lampioni e delle navi traghetto, e dall’altro lato leggere per immagini il romanzo della contemporaneità, il racconto di come Messina vive sé stessa e la cronaca, urtata a suo modo dalla Storia.

Un’opera di Cinzia Muscolino a Messina, gennaio 2016. (Sandro Messina)

Certo i disagi non scompaiono sotto una serie di verniciate, e l’inaugurazione delle pensiline è stata il pretesto per nuove critiche al sindaco più anomalo d’Italia, Renato Accorinti, e all’assessore alla cultura, il sociologo Tonino Perna.

Ogni volta che un posto è trascurato e battezzato come ‘ex qualcosa’ la street art va a promettergli che non morirà

In provincia siamo sempre fermi al pane e alle rose: se la città è incagliata in difficoltà ataviche, è lecito occuparsi d’arte? Già pochi mesi fa, con altri murales commissionati nell’ex mercato ittico, il dissenso si era scatenato, tanto che Accorinti era stato costretto a precisare che i fondi dell’Unione europea utilizzati per pagare gli artisti risalivano a un bando pubblico a cui il comune aveva partecipato nel 2010, prima della sua elezione. Polemiche di buoncostume da commedia all’italiana o da canzone di De André si sono poi concentrate su un dipinto che raffigura quattro corpi nudi, dedicato da Nemo’S a Samia, l’atleta somala che sognava le olimpiadi di Londra ed è morta al largo di Lampedusa.

Quell’opera racconta le tragedie nel Mediterraneo e l’oscenità di cadaveri restituiti dall’acqua, che l’indifferenza lascia stesi ad asciugare. Eppure qualcuno ha visto solo genitali colpevoli di turbare l’innocenza dei più piccoli e offendere il pudore delle apparenze: il terrore che un bambino possa esserne sconvolto è ridicolizzato in una scena della serie animata Cafon street, geniale autoproduzione della Uollascomix di Marcello Crispino e fenomeno di culto cittadino in onda su YouTube.

Infilzati dal pescespada

Oltre a quello della discordia, ci sono altri giganteschi murales nel vecchio mercato e nel contiguo parcheggio Cavallotti. Deviando dal rettilineo del tram per addentrarmi in un labirinto di capannoni, oggi quasi inutilizzato ma mai stato così vivo, mi perdo a naso in su: l’effetto di un immaginario plurale (per questa zona sono stati invitati artisti di fama internazionale) esercita su di me una sovreccitazione fantastica e sognante.

Adesso allo stretto posso dare le spalle come il marinaio che torna a casa dopo una giornata di lavoro, tanto il mare vive nei dettagli, come avviene nei quartieri cittadini dove l’affaccio non è immediato. Fra queste mura Messina è un paguro, una sirena che piange, è drago e serpente, è arancione e azzurra e di tutti i colori con cui la si può immaginare.

Tutto è cominciato quando lo street artist marchigiano che si fa chiamare Blu, rimasto in città per una settimana nel 2013, ha voluto lasciare una traccia sull’edificio dove all’epoca si era trasferito l’ex Teatro Pinelli Occupato, dopo essere stato sgomberato da un altro luogo abbandonato e in rovina, l’ex Teatro in Fiera (ogni volta che un posto è trascurato e battezzato come “ex” la street art va a rassicurarlo, a promettergli che non morirà: per questo mi piace). Oggi quel dipinto è in parte deturpato da scritte e scarabocchi, ma continua a raccontare l’Italia attraverso la lente della mia città di mare: ci sono il cattolicesimo, i telefonini, il denaro e la televisione, tutti infilzati dal pescespada, tipico esemplare della fauna dello stretto.

S’è fatto buio, torno seguendo a ritroso il percorso del tram e ripenso a quando qui non c’era niente e il pomeriggio, finito di studiare, legavo i capelli, mettevo la tuta e andavo a correre lungo la banchina del porto con la sola compagnia di brutti palazzi dai colori sbiaditi e dagli intonaci scrostati.

Fissavo un’insegna luminosa in fondo alla strada e giocavo a raggiungere prima possibile quella scritta pubblicitaria, col fiatone e gli occhi dritti per evitare di guardare il nulla intorno. Al massimo tenevo lo sguardo sul mare, fermo da una parte. Oggi vedo gli stessi palazzi ma quel nulla mi pare più umano e vivo; se mi avessero detto che sarebbe resuscitato avrei corso più veloce e alzato il volume alle cuffiette mentre Rino Gaetano cantava che accanto alle stelle al neon può starci, a volte, un poco d’universo.

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